Un caso di nestorianismo prenestoriano in Occidente, sciolto da Sant'Agostino

di padre Agostino Trapé 1
ne "La ciudad de Dios", anno 1943

 

Ai titoli di gloria che Sant'Agostino possiede come maestro solerte della purezza della dottrina cattolica ed avversario vittorioso di tante eresie del suo tempo e dei secoli anteriori, deve aggiungersi anche il merito, non piccolo, di aver messo in guardia ai primi sintomi dell'eresia che perturbò il mondo cristiano subito dopo la sua morte: il Nestorianismo. Crediamo opportuno ricordare l'azione del Santo in questa occasione, perché è meno conosciuta di quello che merita e perché siamo persuasi che, pur nelle sue modeste proporzioni, questo caso di nestorianismo "prenestoriano" in Occidente, presenta aspetti luminosi per la storia del dogma cristologico e mette in chiaro l'importanza che ha una buona formazione nella scienza sacra. Chi avrà la pazienza di seguirci in questa breve e un po' arida esposizione storico-teologica, potrà dirci alla fine, se la nostra persuasione è o non è fondata. È sempre, d'altra parte, molto istruttivo, e anche più diremo: un altissimo dovere di gratitudine, studiare con intelligenza ed amore gli scritti dei Santi Padri, ammirare e approfittare dello sforzo titanico che essi compirono per spiegare il "Vangelo" alla luce del mistero di Cristo, e tramandare immacolati i loro insegnamenti ai posteri.

 

Cenni biografici di Leporio

È questo il nome del protagonista della nostra storia: modesta figura di monaco, che visse inizialmente nel sud della Francia, e poi nel nord dell'Africa, sullo scorcio del secolo IV e nella prima metà del V. Non ha altro merito, né altri titoli per esser ricordato da noi, se non quello di aver dato occasione col suo errore, a Sant'Agostino, all'episcopato francese ed africano, e anche a tutta la Chiesa occidentale, di affermare la sua fede nel mistero di Cristo, proprio alla vigilia della grande eresia cristologica che per anni turbò la pace della Chiesa orientale, e aver così motivato la condanna di Nestorio, anche prima che fossero divulgati i suoi errori.

Le notizie sulla sua vita, legate tutte al suo errore e alla ritrattazione di esso, le rintracciamo nei seguenti scritti:

  1. Dal Leporii presbyteri libellus emendationis, scoperto nel 1629 da Sirmond, che lo pubblicò l'anno seguente e attualmente contenuto nella "Patrologia latina" di Migne, volume 31. Questo scritto, diretto dall'Africa ai vescovi francesi Proclo e Cilinio, intende dar giusta riparazione allo scandalo suscitato nel sud della Francia da una lettera dello stesso Leporio, in cui tentava di sostenere e diffondere le sue false dottrine;
  2. Dall'Epistola che accompagnava il trattato anteriore, stesa evidentemente da Sant'Agostino e con cui l'episcopato africano assicurava a quello francese l'autenticità della ritrattazione di Leporio e la sua sincera conversione. Questa lettera è contenuta nelle agostiniane, sotto il numero 219 dell'edizione maurina;
  3. Come terza fonte d'informazioni dobbiamo ricordare Cassiano che, a quanto sembra, era in comunicazione personale con Leporio, pur non essendo un monaco del suo monastero, di questo ci sono anche indizi. Cassiano confuta gli errori del monaco e ci dà notizie dello stesso nella sua opera De incarnatione adversus Nestorium;
  4. Infine, Gennadio di Marsiglia - 492-496 circa - nel suo libro De viris illustribus, e più tardi Facondo, vescovo d'Ermiane, in Tunisia, ricordano l'errore di Leporio, ci parlano della sua ritrattazione e raccolgono alcuni dati biografici sulla sua vita.

Con tutto ciò, le notizie che ci forniscono le fonti suindicate sono assai scarse e a volte incerte; cosa, d'altra parte, non molto degna di essere lamentata, data la poca importanza del nostro personaggio.

"Un pestifero errore cristologico, scrive Cassiano, è cominciato a spargersi nei nostri giorni nella regione di Belley".2 Un'altra lezione di questo testo incerto dice "nella regione di Trèves o Tréveris", che, secondo il Morin, deve considerarsi come la vera patria di Leporio. "Questi, continua Cassiano, pare emergere tra tutti i suoi difensori per presunzione di dottrina e zelo d'apostolato", e lo qualifica come il primo o uno dei più autorevoli propagatori del noto errore3:"aut inter primos aut inter maximos".

Il certo è che Leporio, in una lettera diffusa largamente nelle diocesi del sud della Francia, "epistola, come egli la chiama, auctor scandali et offendiculum caritatis"4 tentò di sostenere le sue novità teologiche, convinto che non fossero tali né false in nessun senso. Il contenuto di tale lettera si può ricostruire con l'aiuto della ritrattazione che l'autore fece più tardi; però il fatto è che le dottrine proposte nella stessa richiamarono l'attenzione dell'episcopato, il quale, nel vedere formulati in quella gravi errori contro la fede, intimò all'autore di fare una pubblica ritrattazione degli stessi e, di fronte alla sua risposta negativa, pronunciò sentenza di scomunica contro il monaco renitente.

Leporio con alcuni aderenti si rifugiò in Africa, presso Sant'Agostino, e qui, vinto dalla paterna bontà del grande vescovo d'Ippona ed illuminato dalla luce di quella eccelsa intelligenza, non tardò a riconoscere i propri errori e a dichiararsi disposto a far di nuovo pubblica professione di fede cattolica. La fece, infatti, davanti all'episcopato africano riunito a Cartagine; poi s'inviò prova scritta della medesima all'episcopato francese, come giusta riparazione dello scandalo dato in quelle diocesi. Non si conosce con certezza l'anno in cui Leporio riconobbe i propri errori, né quando sottoscrisse la professione di fede richiesta. I critici fissano come sicuro il tempo che trascorre tra il 410 e il 426 o 427, e attualmente quasi tutti propendono più per il secondo estremo che per il primo. Non andiamo a discutere ora le ragioni pro e contro l'una e l'altra data, cosa completamente inutile al nostro scopo, il quale non è principalmente storico, ma dogmatico. Basti per ora sapere che la professione di fede del monaco Leporio è anteriore al 428, anno in cui, come ognuno sa, iniziarono a scorgersi in Oriente i lampi sinistri, forieri della tremenda tempesta dell'eresia nestoriana.

Quando scriveva Cassiano il suo trattato De incarnatione, verso il 430, Leporio risiedeva ancora in Africa ed era già prete. Alcuni patrologi hanno voluto riconoscerlo in quel presbitero omonimo del clero d'Ippona, di cui ci parla Sant'Agostino nell'epistola 213 e nel sermone 356; senza però addurre altre prove che quella dell'identità del nome, cosa che da sola non basta.

Tali sono i pochi ed incerti dati biografici intorno al nostro personaggio; però quello che principalmente c'interessa conoscere di lui non è precisamente la sua vita, ma piuttosto i suoi errori e, soprattutto, la sua professione di fede e la sua posizione di fronte al mistero di Cristo.

 

Errori di Leporio

Cassiano e Gennadio di Marsiglia non solo lo accusano di aver sostenuto l'eresia che va legata al nome di Nestorio, ma anche di aver difeso gli errori di Pelagio. Leporio, secondo loro, si distinse nel suo monastero per probità di vita e innocenza di costumi; ma, allo stesso tempo, secondo i citati scrittori egli si vantava di aver raggiunto quella perfezione di vita spirituale con il solo proprio sforzo: "arbitrio tantum et conatu proprio, non Dei adiutorio".5 Leporio, tuttavai, non dice nulla riguardo questo nella sua ritrattazione dell'eresia pelagiana; e questo, essendo stato certo il suo contagio con la medesima, sarebbe molto sorprendente. Per questa ragione non mancano autori che sospettano che ci sia stata qualche esagerazione da parte di Cassiano, con scopi apologetici in suo favore. Ma, sia quel che sia, tale questione c'interessa poco, posto che il pelagianesimo e il nestorianismo discendono da uno stesso tronco, da uno stesso germe malefico, e Leporio, a quanto sembra, estraeva la sua dottrina da questo velenoso seme.

Riguardo al dogma cristologico, l'unico che ci siamo proposti di trattare in queste pagine, Leporio, secondo la nota di Cassiano, aveva sostenuto che Gesù Cristo era solamente un uomo ordinario, elevato agli onori e alla podestà divina per semplice merito umano e come premio della sua passione e morte: "Solitarium quippe hominem Dominum nostrum Jesum Christum natum esse blasphemans; hoc quod ad Dei honorem potestatemque pervenit, humani meriti, non divinae asseruit fuisse naturae; ac per hoc eum divinitatem ipsam non ex proprietate unitae sibi divinitatis sempre habuisse, sed postea, pro praemio laboris passionisque meruisse; cum utique Dominum Salvatoremque nostrum, non Deum natum, sed a Deo blasphemaret assumptum".6

Ma lasciamo in pace a Cassiano e cerchiamo di scoprire il pensiero di Leporio dalle sue stesse parole; perché, sebbene è certo che appare in queste meno chiaro e schematico, in compenso saremo certi di non tradirlo e di esporre il suo pensiero genuino, senza attribuirgli il nostro. Peraltro avvertiamo che, ridurre a formule precise la dottrina altrui, può essere comodo all'apologista, però non sempre è consigliabile e utile per la storia.

È nella citata professione di fede ove il nostro monaco ripete, per condannarli, alcuni dei tratti fondamentali del suo precedente errore. In un esteso proemio ci dichiara, con parole più forti di quelle che potrebbe usare il censore più rigorista e con tono sincero, pari solo alla sua umiltà, di avere ritenuto per sapienza l'ignoranza e per luce purissima le tenebre, e di essere stato insieme temerario e superbo; dopo questa dolorosa detestazione delle sue passate colpe, viene al punto essenziale dei suoi errori, che espone, a più riprese, con uno stile arruffato e confuso, sempre senza ordine logico e quasi a salti, contrapponendo ad essi infine la verità della dottrina cattolica. Ecco il nucleo centrale degli stessi: "... dicere verebamur de Maria Deum natum ... sed minime attendentes ad mysterium fidei, non ipsum Deum hominem natum, sed perfectum cum Deo natum hominem dicebamus; pertimescentes scilicet ne divinitati condicionem assignaremus humanam".7

In queste parole viene indicato già l'errore e la causa prossima che lo aveva motivato. Partendo dall'idea, del resto giusta, dell'assoluta immutabilità di Dio, Leporio non vedeva il modo di conciliare in Cristo l'unione della natura umana a quella divina. Lo offendeva il pensiero che Dio, immutabile in se stesso, potesse dirsi nato dalla Vergine Maria: no, questo non era possibile; Dio sarebbe in questo caso mutabile; sarebbe ridotto al livello della natura umana e realizzerebbe azioni indegne delle sue infinite perfezioni. Perché in altro modo, come spiegare questa difficoltà? La soluzione gli sembrò ovvia: no, non fu lo stesso Figlio di Dio che nacque dalla Vergine Maria, ma un uomo puro, benché unito intimamente a Dio da un'unione accidentale. Separiamo in Gesù Cristo, pensò Leporio, ciò che appartiene a Dio, da tutto ciò che appartiene solo all'uomo: "Ita hominem cum Deo natum esse dicamus, ut seorsum quae Dei sunt soli Deo demus, et seorsum quae sunt homines soli homini reputemus",8 così avremo sciolto ogni tipo di difficoltà; avremo due termini di attribuzione, divino ed umano, e in questo modo, infine, le azioni umane di Gesù Cristo non le attribuiremo a Dio, ma al supposto creato. Non è dunque Dio che nasce, patisce e muore, ma solo l'uomo, che in Cristo è unito strettamente a Dio. Negata l'unione ipostatica, si nega logicamente la comunicazione degli idiomati. In verità questo era ciò a cui tendeva, pur se in buona fede, Leporio, che non sapeva rassegnarsi all'idea che Dio, eterno ed immutabile, avesse potuto nascere, patire e morire per gli uomini.

Con tali premesse, l'unione di Dio con l'uomo, per quanto intima e stretta si supponga, non poteva essere più che unione morale: non che lo stesso che è Dio è pure uomo; ma che uno è Dio e altro è l'uomo in Gesù Cristo.

Le conseguenze di queste premesse sono gravi e disastrose; e Leporio, benché abbia agito in buona fede, pare che giunse a tirarle fuori tutte: Cristo uomo è ridotto nella sua dottrina al livello di un santo qualsiasi; eminente, si, quanto si voglia, ma soggetto sempre all'ignoranza, difetto che il nostro monaco gli attribuisce esplicitamente; un santo che giunge ad unirsi con Dio in virtù dello sforzo personale, in virtù della sua devozione, dei suoi meriti, della sua fede, e che si perfeziona progressivamente in tale unione: "quasi per gradus et tempora",9 "aptantes ad Christum laborem, devotionem, meritum, fidem...tamquan unicuique sanctorum, licet hoc numquam habuerimus in corde, pene Christum similem fecerimus".10

E quest'altra conseguenza è ancor più grave: la passione di Cristo è opera dell'uomo, non di Dio; fu Gesù Cristo, in quanto uomo, abbandonato a se stesso, e in nessun modo l'Unigenito del Padre, che soffrì e morì per noi: "Illud etiam minime reticendum censeo quod in eadem epistola simili devians errore subiunxi, Christum Dominum nostrum sic omnia quae erant passionis implevisse, ut in nullo, quasi perfectus homo a divinitatis auxilio iuvaretur: volens scilicet ita in Christo hominem assegnare perfectum, quo et alienum ab his passionibus Verbum Patris assererem: et solum per se hominem egisse haec omnia possibilitate naturae mortalis, sine aliquo deitatis adiutorio, probare conabar ".11 E la prova che adduceva a conferma della sua tesi erano le parole di Nostro Signore sulla croce: "Deus, Deus meus, quare me dereliquisti?",12 nelle quali, secondo lui, era chiaramente indicato che la divinità abbandonò Cristo uomo sulla croce. E questo abbandono non si deve solo intendere in senso morale, cioè, Cristo fu abbandonato alle sofferenze e non difeso dai suoi nemici e persecutori, ma in senso ontologico, ossia che fu l'uomo solo che soffrì e morì, non il Figlio di Dio.

Tale è in breve la relazione che ci dà il medesimo Leporio del suo errore. Nutriamo la speranza di aver esposto fedelmente il suo pensiero; e sebbene è certo che l'eresia difesa e rappresentata poco più tardi da Nestorio si presenti con particolari sfumature di pensiero e d'espressione e con più ampio apparato scientifico, nessuno, peraltro, stenterà a riconoscerla sostanzialmente nelle affermazioni di Leporio, da noi testè ricordate. Basta sapere lo scandalo che produceva nel famoso patriarca di Costantinopoli il termine θεοτόκος, e la sua distinzione della natura umana e divina in Cristo, spinta fino alla separazione: basta aver notizia dell'unione semplicemente morale - ουνάφεια - che lo stesso eresiarca stabilμ tra le due nature e, conseguentemente, della perentoria negazione di ogni comunicazione degli idiomati, per convincersi pienamente dell'identitΰ essenziale di ambo gli errori. Ancor di più: nel primo grido di allarme lanciato dal pulpito di Costantinopoli, sulla fine del 428, e che segnala il principio della guerra al θεοτόκος, si sente ripetere anche il motivo con cui Leporio pretendeva di giustificarsi: l'impossibilità che Dio nasca da una donna: θεοτόκος τήν Μαρίαν καλέιτω μηδείς. Μαρία γάρ άνθροπος ήν ύπό άνθροπου δέ θείν τεχθήναι αδόνατον.13

La coincidenza non è fortuita, ma è dovuta alla medesima causa: all'influenza della scuola antiochiana, che era giunta fino nel sud della Francia.

Ma veniamo a ciò che insegna la dottrina cattolica, che Leporio contrappone al suo passato errore. In essa vediamo la posizione della Chiesa d'Occidente di fronte agli errori cristologici, che presto turberanno la pace della Chiesa orientale, e la loro condanna precisa e assoluta, prima ancora che appaiano. Cerchiamo di riordinare l'arruffata esposizione leporiana.

Il nostro monaco convertito inizia a riconoscere la profondità e l'altezza inaccessibile del mistero, che supera infinitamente le forze della ragione umana ed è, per tal motivo, oggetto della sola nostra fede: il Verbo si fece carne: "Secreto illo mysterio quod ipse novit: nostrum nacque est credere, illius nosse".14 Preclusa così la via alle temerarie e anche superbe indagini della ragione e basandosi sulla salda roccia della fede, Leporio s'innalza con ammirabile sottigliezza di concetti, che evidentemente non è sua, fino al mistero augusto della Trinità; e riconosce che l'unione della natura umana di Cristo non ha come termine la natura divina, ma la persona del Verbo: è la persona del Figlio, in quanto distinta dal Padre e dallo Spirito Santo, quella che s'incarnò; l'unione non si verificò, perciò, nella natura, ma nella persona: "Verbum caro factum est. Sed, uti diximus, solum proprie personaliter, non cum Patre aut cum Spiritu Sancto naturaliter; quia unigenitus Deus, Deus verus, qui cum Patre et Spiritu Sancto unus est in natura, alter est in persona".15

Proposta così chiaramente la distinzione tra l'unione in natura e l'unione in persona, è sciolta dal suo stesso fondamento, l'antica difficoltà di Leporio, dedotta dall'immutabilità divina; difficoltà che inquieterà pochi anni dopo la mente del patriarca di Costantinopoli, mente poco o nulla addestrata alla solida speculazione metafisica. In quanto alla dottrina del convertito monaco francese sul Verbo incarnato, sappiamo che, in seguito, insegnò sempre, con grande precisione di concetti e non minore energia d'espressione, sotto la guida di Sant'Agostino, l'unità della persona e la distinzione delle nature in Cristo. Il Verbo, assumendo la natura umana, è divenuto uomo; però non sono due, Dio e l'uomo, ma una sola persona. Quello che è Dio, quello stesso è pure uomo; e, al contrario, quello che è uomo, quello stesso è pure Dio: "Nec alter Deus, alter homo; sed idem ipse Deus qui et homo, et vicissim homo qui et Deus, Jesus Christus, unus Dei Filius et nuncupetur et vere sit".16"Ergo confitemur Dominum ac Deum nostrum Jesu Christum, unicum Filium Dei, qui ante saecula natus ex Patre est, novissimo tempore de Spiritu Sancto et Maria sempre Virgine factum hominem Deum natum: et confitentes utramque substantiam, Deum atque hominem, inseparabilem pia fidei credulitate suscipimus; et ex tempore susceptae carnis sic omnia dicimus quae erant Dei transisse in hominem, ut omnia quae erant hominis in Deum venirent ... Ac sic ut ipse Deus Verbum totum suscipiens quod et hominis, homo sit; et assumptus homo totum accipiendo quod est Dei, aliud quam Deus esse non possit".17

L'unione ipostatica non poteva essere espressa con formule più inequivocabili e chiare; con questa, affermata da Leporio, era chiusa per sempre la porta alle sottigliezze e ai cavilli orientali e non c'era più posto per un nestorianismo occidentale.

Ma l'identità di persona non intende dire identità di nature; l'unione non significa fusione. Dio ci liberi, dice Leporio, dal concepire le due nature, divina e umana, come due elementi che si mescolano e si confondono per dar origine ad una terza natura: "Absit ita credere, ut conflatili quodam genere duas naturas in unam arbitremur redactas esse substantiam. Huiusmodi enim commixtio partis utriusque corruptio est".18 Come resta immutabile nell'unione personale la natura divina, così anche resta integra, distinta e perfetta in tutto la natura umana: "Nascitur ergo nobis proprie de Spiritu Sancto et Maria semper Virgine Deus homo, Jesus Christus, Filius Dei; ac sic in alterutrum unum fit Verbum et caro, ut manente in sua perfectione naturaliter utraque substantia, sine sui praeiudicio et humanitati divina communicent et divinatati humana participent".19 Persino il monofisismo, che apparirà in Oriente dopo la condanna di Efeso, viene qui già anticipatamente proscritto; nemmeno questo nuovo errore cristologico, riuscirà a passare nella Chiesa occidentale. Ancor più sembra in questa professione di fede di Leporio di ritrovare quasi un abbozzo della definizione del concilio di Calcedonia: "Una persona accipienda est carnis et Verbi, ut fideliter sine aliqua dubitatione credamus unum eumdemque Dei Filium, inseparabilem semper, geminae substantiae...in diebus carnis suae et vere semper gesisse omnia quae sunt hominis, et vere semper possedisse quae Dei sunt".20

Inteso rettamente il mistero di Cristo, Leporio non ha più alcuna difficoltà ad ammettere che Dio sia nato da una Vergine, e che abbia patito e sia morto per gli uomini; tali espressioni non lo meravigliano più e tanto meno lo scandalizzano. Ha compreso che la comunicazione degli idiomati, per la quale tutte le azioni della natura umana si attribuiscono alla persona divina, è una conseguenza necessaria dell'unione ipostatica: "Quapropter iam non pertimescimus dicere ex homine natum Deum et secundum hominem Deum passum, Deum mortuum et cetera. Sed gloriamur dicere Deum natum eumdemque secundum hominem Deum passum".21

E conclude sintetizzando la sua fede con le seguenti parole: "...in hoc maxime fides nostra consistit, ut credamus unicum Filium Dei, non adoptivum sed proprium, non phantasticum sed verum, non temporaneum sed aeternum, pro nobis omnia secundum carnem fuisse perpessum, et non sibi agonizasse sed nobis".22

Questa è, in breve, la professione di fede del monaco convertito, della quale, dopo qualche anno, dirà Cassiano, che era l'espressione autentica della fede dell'episcopato africano e di quello di Francia, e anche di tutti i veri cattolici: "Hanc ergo eius confessionem, id est, catholicorum omnium fidem et omnes africani episcopi unde scribebat, et omnes gallicani ad quos scribebat, comprobaverunt. Neque ullus adhuc omnino existit cui fides haec sine infidelitatis crimine displiceret".23 E difatti, così la considerò la Chiesa proponendola come tessera della dottrina cattolica contro il pericolo delle eresie cristologiche pullulanti in Oriente.

San Leone Magno citerà il passo più saliente nella sua Epistola 165,24 indirizzata all'imperatore omonimo; con la circostanza, degna di nota, che attribuisce la citazione a Sant'Agostino. Teodoreto di Ciro, nella sua Eranistes, riprodurrà la citazione per dimostrare quale è la fede della Chiesa cattolica contro i suoi acerrimi nemici, i monofisiti.25 Anche Arnobio il giovane fa sue le parole della confessione di Leporio, pur senza ricordare l'autore, nel suo Conflictus Arnobii et Serapionis.26 Un secolo dopo il papa Giovanni II,27 e più tardi ancora il già ricordato Facondo, vescovo di Ermiane,28 insisteranno su quelle parole di Leporio: "Nascitur ergo nobis proprie de Spiritu Sancto et Maria semper Virgine Deus homo, Jesus Christus, Filius Dei", per giustificare l'appellativo di θεοτόκος, dato a Maria.

La Chiesa ha visto pertanto fedelmente espressa la sua fede nella "professio fidei" di Leporio e l'ha considerata quale una previa condanna degli errori di Nestorio e di Eutiche.

 

Sant'Agostino, nemico del Nestorianismo

Il lettore sarà già stato avvertito che questa professione di fede è di provenienza agostiniana. San Leone Magno, come abbiamo appena visto, l'attribuisce espressamente al Vescovo d'Ippona nel suo Ex libris professionis fidei, e non senza motivo; e così benché la stesura non sia sua, come appare evidente per lo stile disordinato e oscuro della stessa; suoi sono, con certezza, i pensieri e perfino il vigore e l'esattezza dell'espressione nei passi più salienti e delicati dello scritto. Fu Sant'Agostino, infatti, chi catechizzò Leporio, chi diradò le tenebre dell'ignoranza, chi lo spinse con mano amorosa alla ritrattazione pubblica e sincera dei suoi errori, e chi, infine, in nome dell'episcopato africano rese conto ai vescovi francesi. Con la sua delicatezza e affabilità abituali, li informò pienamente della sincera conversione del monaco su cui pesava la loro scomunica.

Sant'Agostino, non partecipò alla tremenda lotta provocata nella Chiesa da Nestorio; però aveva già scoperto il veleno della grande eresia, aveva adottato un atteggiamento franco e deciso contro di essa, fino a lasciarci poco prima della sua morte la condanna esplicita e perentoria della stessa. E con Nestorio, Sant'Agostino, condannava anche, senza conoscerlo, allo stesso modo il collega di quell'eresiarca, Eutiche.

Al genio ineguagliabile di Sant'Agostino, che univa in sé, in sintesi mirabile, l'acuta penetrazione dei greci con il senso pratico dei latini, e la luce del teologo dogmatico con il calore del mistico; ai suoi innumerevoli meriti nel campo della scienza ecclesiastica, si deve aggiungere anche questo: d'aver precisato i concetti e suggerito l'espressione adeguata, completa, vigorosa del dogma cristologico, promuovendo così, con straordinario impulso, la conoscenza del mistero di Cristo; d'aver dissipato, con i raggi della sua intelligenza luminosa, ogni pericolo di contagio nestoriano in Occidente, preservando la Chiesa latina dai turbolenti sconvolgimenti delle eresie nestoriana e monofisita.

Nel rispetto della verità storica, dobbiamo aggiungere che nel libro di Leporio Libellus emendationis, si trova un'affermazione che nessuno sottoscriverebbe. È quella che dice che il corpo del Redentore fu abbandonato, nell'ora della morte, dall'anima e dalla divinità; e che questo vogliono indicare le parole di Nostro Signore sulla croce: "Deus, Deus meus, quare me dereliquisti?". Bisogna riconoscere che tale interpretazione, opposta alla prima data da Leporio, non è più felice e riuscita che quella di questo. Però possiamo anche assicurare che tanto quest'interpretazione esegetica quanto la dottrina su cui si fonda non sono agostiniane. Sant'Agostino insegna chiaramente, come tutti i teologi moderni, che il corpo di Cristo rimase sempre unito al Verbo, anche nel sepolcro. Così consta da quanto il Santo scrisse nei seguenti testi: nel Tractatus in Ioannem, 63, 3; 78, 2, e meglio ancora nel Sermo 213, 3 e in vari altri passi delle sue opere. D'altra parte, in tutti i testi che abbiamo potuto vedere presenta una spiegazione assai diversa da quella presentata da Leporio, sul menzionato versetto scritturale. Si comparino, per esempio, Enarrationes in Psalmos, 21, 2; 37, 6; 43, 2; 58; Sermo 1, n. 2, 87, 13.

Il Santo Dottore insiste ordinariamente sull'unione tra Cristo e la sua Chiesa e afferma che le menzionate parole del salmo Cristo le pronunciò come capo, in nome di tutto il corpo. Davano motivo a questa spiegazione allegorica le parole che seguono nel medesimo salmo: "Longe a salute mea, verba delictorum meorum"; parole che, così come suonano nella versione latina, non potevano essere pronunciate dal Redentore se non in nome della sua Chiesa.

Però ancora dobbiamo domandare: come poté Sant'Agostino lasciar passare senza correzione le affermazioni del suo discepolo convertito? Fu senza dubbio, perché sapeva che Sant'Ambrogio,29 Sant'Ilario,30 Sant'Epifano31 e Sant'Atanasio32 avevano espresso l'opinione che il corpo di Cristo, separato dall'anima nell'ora della morte, era stato abbandonato anche dal Verbo. Per questa ragione il grande Dottore non volle imporre il suo giudizio a Leporio, ma preferì lasciarlo pensare liberamente in un punto della dottrina che allora sembrava di libera discussione. Esempio ammirabile d'ampiezza di spirito e di elasticità intellettuale, che i teologi di tutti i tempi dovrebbero imitare.

 

Origine del nestorianismo leporiano

Chi ha avuto la pazienza di seguirci in quest'arida esposizione, forse si domanderà: quale fu la causa di questo caso solitario d'eresia cristologica in terra francese?33 Si deve pensare forse ad un caso di generazione spontanea, o piuttosto allo sviluppo logico di un seme importato da un altro paese? Già lo abbiamo introdotto prima: non si tratta di un esempio di generazione spontanea, ma di dottrine importate dall'Oriente, e, più in concreto, dalla scuola antiochiana. Il monachesimo francese, tanto fiorente nelle province del sud nel V secolo, sembra che ebbe la sua origine dall'immigrazione di monaci orientali, principalmente della regione d'Antiochia. Alla famosa scuola di questa città appartenne certamente il fondatore del celebre monastero di San Vittore di Marsiglia, Giovanni Cassiano.

E con i monaci pare che entrarono in Francia pure le dottrine e l'orientamento teologico caratteristici della scuola antiochiana. Difatti, queste dottrine e tendenze appaiono con chiarezza nel piano di studi e nello spirito scientifico, che dominavano nei monasteri di Marsiglia e Lerins.

Di conseguenza, sembra sicuro che Leporio, nella sua ingenua ignoranza, non fece altra cosa che ripetere e diffondere opinioni peculiari della scuola antiochiana. E veramente, chi abbia notizia di questa, che conta tra i suoi maestri più illustri Diodoro di Tarso, Crisostomo e Teodoreto, non può non riconoscere nelle origini della stessa preferenze e modi di pensare che, sviluppati da maestri meno eruditi e, soprattutto, meno prudenti, dovevano terminare, necessariamente, negli errori di Pelagio e di Nestorio. Difatti, questa scuola sorse come contrappeso provvidenziale alle tendenze idealiste ed allegoriche della scuola alessandrina e, per tal motivo, con un carattere francamente positivo e pratico. Perciò preferì in filosofia Aristotele a Platone, e tra le opere del primo, la dialettica e l'ermeneutica, piuttosto che la metafisica, che restò dimenticata; in teologia, questa scuola guardava più all'uomo che a Dio; nell'esegesi biblica, cercava di limitarsi al senso letterario, proponendo il principio della "teoria" contro il disastroso abuso allegorista degli alessandrini; perciò nel campo dell'esegesi questa scuola si guadagnò meriti imperituri, sviluppando ed applicando principi ermeneutici, che ancora oggi dirigono l'esegesi cattolica.

Nel campo della Teologia dogmatica, i suoi meriti non sembrano tanto stimabili per quanto da questa stessa scuola derivino, o con essa s'uniscano, in diverso grado, tre nomi tra i più grandi eretici di tutti i secoli: Ario, Pelagio e Nestorio. In realtà, la tendenza esagerata all'investigazione storica, l'insistere troppo nella parte positiva o pratica, tanto nell'esegesi quanto nella teologia, uniti al disprezzo o perlomeno alla dimenticanza, della sana speculazione metafisica, portarono questa scuola alle assurde interpretazioni della Scrittura, in Ario; al soggettivismo critico in Teodoro di Mopsuesta, e alla tendenza naturalista, mescolata al razionalismo, che, applicata all'uomo, terminava in Pelagio, e, applicata a Gesù Cristo, produceva Nestorio. Lo stesso Teodoro di Mopsuesta aveva già portato alle ultime conseguenze l'indirizzo teologico della sua scuola, insegnando senza reticenze né ambagi le eresie pelagiana e nestoriana, prima dell'apparizione in scena di Pelagio e Nestorio; e l'influenza perniciosa del fecondo scrittore di Mopsuesta pare che giungesse fino al nostro Leporio.

Abbiamo detto che la causa di questi gravi errori dogmatici furono la tendenza positiva di questa scuola, portata all'estremo da alcuni dei suoi rappresentanti, e la dimenticanza di una sana speculazione teologica. In realtà, nel fondo delle eresie cristologiche si scopre subito la mancanza di penetrazione metafisica e un'accentuata posizione anti-intellettualistica. Già abbiamo visto quali furono le ragioni che spinsero Leporio a negare l'unione ipostatica, e come furono le medesime che indussero in seguito Nestorio a proporre gli stessi errori: ragioni, nell'uno e nell'altro caso, di ordine puramente metafisico: la natura divina non può nascere nel tempo e neppure morire; quindi Dio non è nato né è morto. Tale era il modo di argomentare di Nestorio. E la mente positivista, però per niente metafisica, del patriarca di Costantinopoli, non riusciva a vedere che quel quindi, che tanto presuntuoso affermava, non portava a niente, Leporio gli aveva dato già la risposta nella sua professione di fede, espressa poco prima.

Ma incontriamo ancora un'altra difficoltà più grave nelle viscere delle eresie cristologiche, e anche d'indole metafisica. La formulò già Apollinare, il primo che propose in termini chiari e decisivi l'arduo problema dell'unione ipostatica con le seguenti parole: due esseri perfetti in sé, mai potranno costituirne uno solo: δύο τέλεια έν γενέσθαι ού δύναται.34 In altre parole: una natura perfetta ed individuale non può smettere d'essere per questo solo persona. Perciò se in Cristo ci sono due nature perfette, devono esserci necessariamente due persone. Ancora, al fine di salvare l'unicità della persona in Cristo, cosa che desiderava raggiungere ad ogni costo, Apollinare credette che non vi era altro mezzo che quello di mutilare la natura umana in Cristo. Questo scandalizzò con ragione la Chiesa, e Apollinare fu condannato.

La difficoltà, tuttavia, restava ancora in piedi, giacché si era condannata solamente la soluzione data alla stessa; e in Antiochia, dove tanto si parlò e scrisse contro Apollinare, insistendo con ragione sulla perfezione assoluta delle due nature, umana e divina di Cristo, apparve Nestorio con la seguente soluzione: due nature perfette; quindi due persone. Risposta non meno falsa e che turbò ugualmente tutta la Chiesa. San Cirillo d'Alessandria lanciò il primo grido d'allarme contro il nuovo errore, e ricordò a tutti la fede tradizionale nell'unità di persona in Cristo. Nestorio fu anche condannato come eretico.

Malgrado ciò, la difficoltà metafisica permaneva senza trovare soluzioni; ed Eutiche, che San Leone Magno chiama "imprudens et nimis imperitus", girando sempre sullo stesso punto, trovò la conclusione opposta: una persona; dunque una sola natura in Gesù Cristo.

Solo un secolo più tardi, Leonzio di Bisanzio, con profonda intuizione metafisica e con un metodo di analisi, che annuncia già quello dei bei tempi della scolastica, scioglie la difficoltà nel suo terreno, in quello della sana speculazione teologica, e non in quello degli apriorismi; determina qual è il costitutivo formale della persona; e scioglie definitivamente il nodo intorno al quale avevano inutilmente girato Apollinare, Nestorio ed Eutiche; e finalmente giustifica, in sede metafisica, la formula cattolica: due nature e una persona.

Certo che nonostante ciò i seguaci del monofisismo, sempre sprovvisti di una conveniente preparazione teologica, cercarono di presentare una nuova base sulla quale potesse appoggiarsi l'errore già respinto. E fu Sergio, patriarca di Costantinopoli, uomo di Stato più che di Chiesa, che propose la nuova modalità dell'errore nella seguente formula: due sono le nature in Cristo e una la persona, quindi una sola anche la volontà e una l'operazione: έν θελημα καί μία ενέργεια. Chiunque vede il sostrato metafisico in tale modo di argomentare; e furono necessari tutto lo zelo e la profonda intuizione di San Massimo, il confessore, per abbattere il monotelismo, e dimostrare che il principio immediato - gli scolastici diranno "principium quo" - delle operazioni, non è la persona, ma la natura. Pertanto, se ci sono in Cristo due nature, devono anche esserci due volontà e due operazioni.

 

Insegnamenti dal caso di Leporio

Basta ora di trattare le antiche eresie. Ma prima di concludere queste pagine ci si permetta di riunire alcuni insegnamenti che fluiscono spontanei dal caso di Leporio e dagli errori cristologici che sommariamente abbiamo ricordato. Il disprezzo della speculazione teologica, la mancanza di penetrazione metafisica e ogni posizione anti intellettualista sono germi malefici che producono presto o tardi funeste conseguenze nel campo del dogma. E lo furono nel passato come lo sono al presente e lo saranno domani. È certo che l'intellettualismo puro risulta frequentemente sterile, se non viene vivificato dalla fiamma della volontà: però se è di buona qualità, non risulterà mai pernicioso. Non è necessario ricordare che il fallimento del razionalismo si deve al suo strombazzato anti-intellettualismo kantiano. E la Chiesa dà prova di conoscere bene lo spirito del nostro tempo, quando ci raccomanda di conformare gli studi filosofici e teologici ai principi e al metodo di San Tommaso d'Aquino.

Sono le idee che promuovono le azioni e che dirigono e governano la vita dei popoli. La cosa più grave, nel triste spettacolo che oggi stiamo vedendo, non sono le immense rovine delle città o dei campi di battaglia, né i cambi violenti e continui dei confini universali, ma la progressiva confusione e oscurità delle idee fondamentali che danno consistenza e valore alla vita degli individui e dei popoli. È necessario, come invocano molti, adeguarsi al dinamismo moderno; però è ancora più necessario illustrare ed insistere su quelle verità basiche che tale dinamismo vorrebbe confondere e relegare nell'oblio. Solo così risponderemo all'alta e grave missione che spetta alla teologia: orientare e dirigere la vita verso il fine supremo.

Venga alla buon'ora l'anelata rinnovazione della teologia, mediante il ritorno alle fonti fresche e pure dei primi tempi della Chiesa. Però desidereremmo che fosse il ritorno alla teologia di San Giovanni, che non pretese di dare nel prologo del suo Vangelo l'introduzione ad un corso di scienza sacra; o alla teologia di San Paolo, che neppure diresse le sue lettere a un circolo di professori universitari; o alla teologia di Sant'Agostino che parlava ai suoi fedeli dei più alti misteri della nostra fede, che oggi fanno battere il polso e mettono paura ad un teologo di professione, e che i pescatori d'Ippona lo ascoltavano e seguivano.

Se il popolo dei nostri giorni non ci comprende né ci segue di buon grado nel trattare di questi misteri, la colpa, diciamolo chiaro, è nostra. Gli occhi del nostro spirito si sentono deboli e non riescono a fissarsi con fermezza ed audacia nelle sublimi verità della fede; per questa ragione ci sentiamo incapaci di parlare a tutti con profondità e con un linguaggio chiaro delle medesime. Ritorniamo, perciò, a quei grandi maestri della teologia; perché al loro contatto, si realizzerà anche in noi, in maggiore o minor grado, quell'ammirabile unione d'intellettualismo e di misticismo, e vedremo come in questo modo la teologia non sarà patrimonio esclusivo di un'insignificante minoranza di professori universitari, ma dottrina di vita per il popolo cristiano.

 

Roma, Collegio di Santa Monica, luglio 1942.