L'esempio e l'azione di Sant'Agostino in favore della vita monastica esercitano un influsso decisivo sugli inizi e sull'evoluzione del monachesimo occidentale. Il monachesimo in Occidente non si svilupperà su altra base né si muoverà su altra linea diverse da quelle indicate dal Vescovo d'Ippona. Questo è un aspetto di Sant'Agostino che passa frequentemente inavvertito, forse per l'accecante luce che espandono altri aspetti della sua attività. Però non possiamo dimenticarlo in quest'anno, in cui si commemora il settimo centenario di quel 9 aprile 1256, nel quale gli eredi dell'ideale monastico agostiniano, seguendo i desideri della Santa Sede, lasciarono i loro monasteri solitari fuori dalle città e si unirono in un solo organismo per mettere in pratica lo stesso ideale.
Forse non è inutile far risaltare il fatto che la vocazione di Sant'Agostino alla vita monastica nasce e si matura a Milano. Può essere che questa affermazione sembri nuova per alcuni e strana per altri. Ma essa, tuttavia, ha in suo favore la testimonianza di tutte le fonti, che non sono poche 2
A Milano, nella casa in cui trovava ospitalità, a fine luglio del 386, all'ombra di un fico giungeva alla fine un dramma che si era prolungato per vari anni; un dramma umano, profondo, che fa vibrare tutte le fibre dell'essere. Sant'Agostino si trova sul punto di fare una scelta definitiva. Però non si tratta di una scelta tra la verità e l'errore - lui credeva da tempo 3 - e neppure tra una vita veramente cristiana e una vita di peccato - per questa scelta, lui non aveva bisogno che di far regolare e legittimare la sua unione 4 -; la scelta che doveva fare era un'altra più profonda e più compromettente: era la scelta tra la vita cristiana ordinaria e la pratica dei consigli evangelici. Così si comprende il dramma. Il contrasto tra la nobiltà del suo spirito, innamorato dell'eterna bellezza della sapienza, e le tristi inclinazioni ed abitudini dei suoi sensi era troppo violento. Narrandoci il felice epilogo del dramma, ci rivela i suoi elementi costitutivi: "Infatti mi rivolgesti a te così appieno - scrive - che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo" 5 E chi non ricorda le parole di Monica al suo Agostino prima della sua morte? "Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora per un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui" 6 Servus Dei. Questa è l'espressione con la quale Sant'Agostino suole indicare la vita monastica: servitutem Dei..., la chiama, in qua servi Dei monachi vivunt 7 Milano, Roma, Tagaste, Ippona, indicano le tappe del cammino percorso verso l'ideale monastico. Milano, la conversione all'ideale; Roma, lo studio del monachesimo; Tagaste, la prima esperienza; Ippona, il completo sviluppo. Egli difese il suo ideale con appassionata tenacia contro tutti: contro le violenze dei donatisti, contro l'incomprensione dei fedeli, contro la resistenza del clero, contro gli errori, i difetti e gli scandali dei monaci! 8 È commovente vedere il santo Vescovo difendere un ideale incompreso da molti, ma nel quale egli presagisce un grande bene per la Chiesa e per le anime! Sperimentò molte amarezze, però anche grandi soddisfazioni.
Da Tagaste e Ippona, il monachesimo si diffuse rapidamente per tutto il nord d'Africa, dove era fino ad allora sconosciuto. Soltanto ad Ippona abbiamo notizie, almeno, di cinque monasteri: un monasterium virorum, fondato da Sant'Agostino nel 391 in un orto vicino alla chiesa che gli regalò il vescovo Valerio; un monasterium clericorum, fondato dallo stesso Santo verso il 397 nel palazzo episcopale; un monasterium feminarum, dove fu superiora sua sorella; un quarto fondato dal presbitero Leporio e un quinto fondato dal presbitero Bernabé 9
Quasi contemporaneamente sorgevano monasteri a Cartagine con l'appoggio del grande Vescovo di quella città, Aurelio 10 Poi vengono quelli di Càlama, Milevi, Uzala, Cirta, Sicca e Cataquà, dove erano vescovi altrettanti discepoli di Sant'Agostino, formati nel monasterium virorum d'Ippona 11 In breve tempo il monachesimo si diffuse in tutte le regioni dove era giunta l'influenza di Roma. Per farsi un'idea di questa rapidissima fioritura, basta ricordare i due monasteri fondati a Tagaste intorno al 411 dalla ricca e nobile Melania, uno di uomini, con ottanta monaci, e l'altro di donne, con centotrenta vergini 12
Che tutto questo non fosse un entusiasmo facile lo dimostrò presto la prova del sangue, la più sicura ed autentica che possediamo. Nella lotta che Sant'Agostino condusse contro il donatismo in difesa dell'unità della Chiesa cattolica, molti dei suoi monaci furono sottomessi a tormenti, molti altri caddero assassinati dai circoncellioni 13 Questi erano una banda di crudeli che percorrevano la campagna (circum-cellas, da qui il loro nome) al grido di guerra Deo laudes. Questo grido, che faceva tremare i cristiani più che il ruggito del leone, si era fatto sinonimo di furti e uccisioni 14
Circa quaranta anni più tardi venne la persecuzione di Genserico, più grande e più sanguinosa, della quale ci parla Possidio narrando la morte di Sant'Agostino, 15 e più diligentemente Vittorio Vitense nella sua Historia persecutionis Africanicae provinciae, dove menziona un gran numero di chierici che, espulsi dall'Africa in compagnia di Quodvultdeus, vescovo di Cartagine, giunsero felicemente nel porto di Napoli 16
Però non è nostra intenzione narrare la storia del monachesimo agostiniano, né affrontare questioni relative alla Regola. Che la Regula ad servos Dei sia frutto del genio e del cuore del Vescovo d'Ippona, se si prescinde dalla questione, ancora sub judice, dei suoi primi destinatari, è criticamente certo 17 Come è certa l'influenza della stessa negli altri legislatori del monachesimo occidentale: in San Cesareo di Arlés, nel sud della Francia; 18 in San Benedetto, in Italia; 19 in San Leandro e San Isidoro, in Spagna, e nella Regula Tarnatensis, che trascrive il testo integralmente 20 Noi desideriamo solamente, esaminando le fonti a nostra disposizione, far risaltare le idee del monachesimo agostiniano, che sono state luce e guida del movimento monastico occidentale. Queste idee si riferiscono tanto alla costituzione quanto all'attività del monachesimo.
Le prime notizie riguardanti il monachesimo orientale giunsero in Occidente con la venuta a Roma di Sant'Atanasio (340), e più tardi con la vita di Sant'Antonio, scritta dal Vescovo di Alessandria 21 I fatti ammirabili del patriarca degli anacoreti suscitarono in Roma, in Tréveris e in tutte le parti dove passò l'esiliato alessandrino, un'onda di entusiasmo.
Da quel momento la vita anacoretica iniziò ad esercitare un fascino irresistibile, e molte anime cercarono nei deserti l'unione con Dio. San Geronimo aumentò questa seduzione con la forza dell'esempio e dell'eloquenza, esaltando la vita anacoretica nelle sue lettere e proponendo gli esempi dei grandi anacoreti, come Paolo di Tebe, Ilario, Malco.
Sant'Agostino, sebbene fosse stato mosso ad abbracciare la vita monastica precisamente per gli esempi di un grande anacoreta, Sant'Antonio, e amasse come pochi la contemplazione, a cui la vita anacoretica è esclusivamente consacrata, nonostante la sua grande ammirazione per questo genere di vita che gli si presentava come un Excellens fastigium sanctitatis, 22 preferì la vita cenobitica. Si trovano nel cenobitismo agostiniano una nota di profonda umanità e una vena perenne di freschezza: l'una proviene da un'esigenza di amicizia, che dominava il cuore di Agostino; l'altra dal ricordo della prima comunità cristiana. Queste furono le ragioni che lo spinsero alla decisione.
Pochi hanno coltivato l'amicizia come il Vescovo d'Ippona e pochi hanno inteso come lui la sua dignità e bellezza. Guidato da questa necessità del cuore ha concepito la vita monastica come un'amicizia sovrannaturale, grazie alla quale i fratelli vivono insieme; e insieme, aiutandosi e sopportandosi, si elevano a Dio. "Perché desideri che le persone a te care vivano e convivano con te?", si domanda Sant'Agostino nei Soliloqui. E risponde: "Affinché possiamo indagare in concorde collaborazione sulla nostra anima e su Dio. Così colui che per primo avrà risolto il problema, indurrà senza fatica al medesimo risultato anche gli altri. E se essi non volessero indagare su tali argomenti? Li convincerò a volere. E che avverrebbe se tu non lo potessi? ..., habebo eos, risponde, et ipsi me, sicut possumus. Stabiliremo dei rapporti come meglio potremo" 23 C'è tanta sensibilità umana in queste parole! Esse presentano il monacato come un ideale caldo, vivo, umano, nel quale si entra con tutta l'anima, senza ipocrisie, né meschinità o invidie, solo per cercare la sapienza e trovare nella gioia altrui un aumento della propria gioia.
La vena di perenne freschezza viene al monachesimo agostiniano dall'esplicito e costante richiamo alla vita dei primi cristiani. "Fatto prete - scrive San Possidio - subito istituì un monastero accanto alla chiesa e cominciò a vivere con i servi di Dio secondo il modo e la norma stabiliti al tempo degli Apostoli" 24 "lo sapete ormai tutti o quasi tutti che quanti siamo qui - chiarisce Sant'Agostino stesso al suo popolo - nella casa detta del vescovo, cerchiamo di imitare nella nostra vita, per quanto possiamo, il modello di quei santi di cui dice il libro degli Atti degli Apostoli: nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune" 25 Il monachesimo non intende essere più che una primavera cristiana, un rinnovare nei secoli le meraviglie della Pentecoste: "tutti i credenti erano uniti e tenevano tutte le cose in comune" 26
Dovrei aggiungere che nella vita cenobitica Sant'Agostino vedeva il segno vivente dell'unità della Chiesa e la perfetta attuazione dell'amore sociale, che egli pone come fondamento della città di Dio. Però queste considerazioni ci porterebbero troppo lontano. Basta aver ricordato i due motivi fondamentali che spinsero Sant'Agostino a scegliere il cenobitismo per comprendere come questa forma, con preferenza all'altra, era destinata a diffondersi e a dominare quasi esclusivamente in Occidente.
Mettiamo in risalto piuttosto le basi della vita comune, nella quale consiste essenzialmente il cenobitismo. Esse sono indicate in due espressioni, brevi, però assai feconde, degli Atti degli Apostoli: erant illis omnia communia y dividebatur singulis prout cuique opus erat 27 Nell'interpretazione di queste due massime che costituiscono l'architrave dell'edificio monastico cenobita, il Vescovo d'Ippona manifesta tutta la ricchezza del suo spirito soave e generoso.
Il erant illis omnia communia ricorda l'esercizio della povertà, della quale i primi cristiani diedero un esempio ammirabile. Sant'Agostino possiede un concetto chiaro della povertà come voto, come rinuncia totale alla proprietà, come vita comune perfetta, come attesa fiduciosa della misericordia di Dio. "Per me è scontato - dice al suo popolo - quanto sia male professare qualcosa di santo e poi non farlo ... Una vergine che si sia consacrata a Dio, anche se non le è lecito sposarsi, non è obbligata a vivere in monastero. Ma se ha cominciato a viverci e poi se ne va, anche se resta sempre vergine, dimidia ruit. La stessa cosa vale per un chierico che aveva fatto voto di santificazione e aveva fatto promessa di vivere nel sodalizio comune: si ab hoc proposito ceciderit, et extra manens clericus fuerit, dimidius et ipse cecidit" 28 La povertà, come si vede, viene equiparata alla castità: non c'è dubbio che sia un voto, un obbligo pesante davanti a Dio. Questo voto consiste nella rinuncia a ogni proprietà, rinuncia che deve estendersi agli effetti, anche civili. Sant'Agostino lo esige, almeno dopo il caso di Onorato, monaco di Tagaste, ordinato sacerdote per la chiesa di Thiave, il quale, per non aver fatto la rinuncia alla sua proprietà negli effetti civili, diede origine, dopo la sua morte, ad una lunga e sgradevole disputa tra il monastero e la parrocchia 29
"Chiunque possiede qualcosa - così riassume Sant'Agostino il suo pensiero - o lo venda e ne distribuisca il ricavato [ai poveri], o lo regali o lo metta in comunità". Il patriarca di Montecassino, nel capitolo 48 della sua Regola e San Cesareo di Arlés, nella Regula ad monachos, riproducono l'eco di queste parole di Sant'Agostino, il quale, d'altra parte, aggiunge: "Facciano ciò che vogliono, dum tamen sint pauperes mecum et expectemus simul misericordiam Dei" 30 Parole queste di una bellezza che incanta.
Da questo principio si deducono tutte le conseguenze: quello che il monaco acquista, non lo acquista per sé, ma per il monastero, e al monastero appartiene anche tutto ciò che i religiosi ricevono dai loro parenti, fino al punto che chi occulta qualcuna delle cose ricevute, deve essere condannato come reo di furto. Ciascuno deve vivere della mensa e vestirsi da un armadio comune. Egli stesso faceva così: "Io debbo avere un vestito - dice parlando al suo popolo - che potrei regalare, se non lo avesse, a un mio fratello; un vestito quale può avere un presbitero, quale può dignitosamente indossare un diacono, un suddiacono. Quello solo accetto, perché accetto in vista della comunità. Se mi si offre un vestito più prezioso lo vendo: così sono solito fare perché il ricavo della vendita si può mettere in comune mentre un vestito così non può essere messo in comune. Vendo e dò ai poveri" 31 E tra i poveri comprendeva anche i suoi religiosi, che chiamava con titoli suggestivi come questi: i poveri di Dio, i minimi di Cristo, pauperes Dei, 32 minimi Christi 33
Si noti che Sant'Agostino parla di povertà individuale non di povertà comune: ciascun religioso deve essere povero, non necessariamente il monastero. Non si tratta qui di discutere sulla povertà intesa come mendicità, né, assai meno, sulle difficoltà pratiche di questo nobilissimo ideale e sulle perturbazioni causate alla Chiesa nel medioevo dai richiami spirituali. Ci è sufficiente ricordare che il Concilio di Trento e il Diritto Canonico hanno fissato sulla povertà religiosa la dottrina già esposta e difesa da Sant'Agostino; e questo, ci sembra un merito non da poco del Vescovo d'Ippona.
Non meno efficace appare il contributo di Sant'Agostino nell'interpretazione di quell'altro passaggio degli Atti degli Apostoli che si riferisce all'amministrazione della vita comune: dividebatur singulis prout cuique opus erat. È questa una questione delicatissima, dalla quale dipendono il benessere del monastero e il successo di una regola monastica. Per risolverla con precisione c'era bisogno di una sicura percezione della psicologia umana e di un senso profondo di bontà e di moderazione. L'anima di Agostino era ben provvista di queste qualità. Di fatto, in qualsiasi parte delle prescrizioni della sua Regola brilla uno spirito di discrezione e di equilibrio, che sa essere forte senza debolezze, comprensivo senza negligenze, che ricorda ai superiori di essere benigni piuttosto che severi e ai sudditi che è meglio aver bisogno di poco che avere molto. Ci limitiamo ad un solo esempio, che prendiamo da San Possidio, il quale, parlando della mensa di Sant'Agostino, ci dà la misura della moderazione, dirò anche di più, del dominio del suo animo.
"Usava di una mensa frugale e parca - traduciamo le parole di San Possidio - che però fra la verdura e i legumi aveva qualche volta anche la carne, per riguardo gli ospiti o a qualcuno che non stava bene, e aveva sempre il vino" 34 Sappiamo, d'altra parte, che, i pocula del vino erano misurati 35 Però chi pensi nuovamente ai digiuni e alle penitenze dei monaci orientali, chi ricordi il detto degli anziani nella Vitae Patrum: Vinum monachorum omnino non est, 36 chi legga una volta ancora la lettera di San Girolamo a Eustocchio, dove si dice che anche i malati usavano solamente acqua e che prendere alimenti cotti veniva considerato un atto di sensualità, coctum autem aliquid accepisse luxuriae est, 37 non può fare a meno di vedere in queste parole di San Possidio, che ci rivelano il tenore della vita di Sant'Agostino, una profonda rinnovazione della vita monastica. Si respira già un'aria nuova.
Mitigando, tuttavia, il rigore dell'ascetismo esteriore, proprio dei monaci orientali, Sant'Agostino insiste in un altro ascetismo più spirituale, più profondo e per lo stesso fatto, più efficace, che vorremmo chiamare l'ascetismo della carità. Intendiamo con questa espressione l'esercizio continuo dell'amore sociale che vuota, lentamente, lo spirito dall'amor proprio, dall'egoismo e lo induce a preferire, in tutto, il bene comune al proprio. Intendiamo quel cumulo di rinunzie, di umiliazioni, di sacrifici che porta con sé il mantenimento dell'unità e della concordia lì dove tutto condurrebbe alla divisione e ai contrasti: la diversità di educazione, di carattere, d'umore, di occupazione. Ricordiamo che, nei monasteri agostiniani, al lato dei senatori, vivevano coloro che fino al loro ingresso nel monastero erano stati contadini, e si comprenderà il valore e l'importanza di questo ascetismo. A questo, che è allo stesso tempo umile e generoso, ricorre Sant'Agostino per salvaguardare la pace ed evitare che nel monastero ubi fiunt senatores laboriosi, ibi fiant ... rustici delicati 38
Tuttavia non si pensi che moderazione e bontà fossero per Sant'Agostino sinonimo di debolezza. Ho qui due esempi che ci mostrano di quanta energia era capace quando si trattava di difendere i fondamenti della vita religiosa. Il primo si riferisce alla povertà. Il nostro Santo si era proposto di non ordinare nessun chierico che non accettasse la vita comune, che, in altre parole, non desiderasse farsi religioso; così, aveva diritto, se l'interessato abbandonava il monastero, a cancellarlo dal numero dei chierici. Sembra che ci fu una protesta da parte del clero. Egli stesso, poi, si rese conto che questo poteva favorire la simulazione e l'ipocrisia. Cambiò opinione. Il 18 dicembre 425 parlò al suo popolo e diede ai chierici libera opzione: restare con lui nel monastero o vivere nelle proprie case, lasciando loro il tempo per riflettere fino all'Epifania. Dopo il 6 gennaio il Vescovo parlò nuovamente al suo popolo, annunciò contento che tutti avevano accettato la vita comune e aggiunse queste severe parole: "Così, chi si trovi ad aver mantenuto qualche suo possesso, non gli permetto di arrivare a fare testamento; questo sì lo cancello dall'elenco dei chierici. Può anche ricorrere contro di me, appellandosi a mille concili, giungere contro di me fin dove vuole - l'allusione a Roma è qui evidente - risiedere dove gli sarà possibile stare, ma il Signore mi aiuterà finché io sarò vescovo, costui non sarà chierico nella mia giurisdizione" 39 Non so se alcun legislatore abbia mai parlato, qualche volta, con tanta forza in difesa del suo ideale monastico.
L'altro episodio si riferisce alla condotta incensurabile ed all'austerità dei sacerdoti. Si tratta del monaco Abbondanzio, ordinato sacerdote di una parrocchia rurale in fundo Strabonianensi: non era un religioso esemplare, però non lo si poteva accusare di colpe gravi. Un anno, alla vigilia di Natale, si trovava nella Chiesa di Gippi - altra parrocchia rurale -, il mattino assai presto salutò il parroco del luogo, facilmente un suo confratello religioso, dicendogli che desiderava tornare alla sua parrocchia; di fatto, tuttavia, rimase in quei luoghi e, nonostante fosse giorno di digiuno, pranzò e cenò in una locanda, diretta da una donna di cattiva reputazione, passando lì la notte. Naturalmente sorsero dei sospetti, ma non fu possibile provarli. Tuttavia bastò il solo fatto - l'aver infranto il digiuno e l'aver commesso un'azione che creava fondati sospetti - perché Sant'Agostino inesorabilmente lo privasse della cura delle anime e lo sospendesse, diremmo oggi, a divinis. Nel dar notizia del fatto al Primate di Numidia, il Vescovo di Ippona taglia ogni discussione con queste parole: "Se però i giudici ecclesiastici fossero per caso di altro parere, essendo stato stabilito dal Concilio (quello di Cartagine del 348) che la causa di un prete deve essere definita da sei vescovi, chi lo vuole gli affidi pure una chiesa posta sotto la propria giurisdizione. Quanto a me, lo confesso, temo di affidare una qualunque comunità di fedeli a dei preti siffatti". E il povero Abbondanzio ritornò in campo Bullensi, da dove venuto, sine officio praesbyterii 40
Certamente questo non è lo sdolcinato Sant'Agostino di certe narrazioni devote; però in compenso è l'autentico Sant'Agostino della Storia.
Per completare il passo, aggiungiamo una formidabile invettiva che si trova nel De opere monachorum contro i monaci girovaghi, circumeuntes provincias, nusquam missos, nusquam fixos, nusquam stantes, nusquam sedentes. Questi monaci, continua Sant'Agostino, sono il disonore dell'istituzione monastica e vendendo le reliquie dei martiri - si tamen Martyrum - e chiedendo elemosine, non fanno altro che esigere aut sumptus lucrosae egestatis aut simulatae pretium sanctitatis 41 Questa invettiva prelude il primo capitolo della Regola benedettina e lascia prevedere la stabilitatis loci, della quale parleranno San Benedetto e San Cesareo di Arlés come di un elemento fondamentale.
Bastino queste rapide note sulla costituzione del monachesimo agostiniano; non ci è possibile fare un percorso, neppure brevissimo, in uno dei monasteri di Ippona, in quello dei chierici, ad esempio, e vedere, in concreto, il suo funzionamento, riprendendo quel senso di allegra fraternità e di sapiente moderazione che il santo Vescovo aveva saputo infondergli. Dobbiamo passare a considerare l'attività che Sant'Agostino indica ai monaci. Questa seconda parte della nostra sommaria esposizione ci condurrà, forse più che la prima, a giustificare queste audaci parole di Przywara: "Sant'Agostino è il Padre dei tipi di religiosità delle grandi famiglie d'Occidente, da San Benedetto alla Compagnia di Gesù" 42 Queste attività sono di fatto, oltre che la oratio e la lectio, le medesime attività che hanno reso grande e benefico il monachesimo occidentale: il lavoro manuale, lo studio, l'apostolato.
Verso il 400 Sant'Agostino si vide obbligato a difendere il lavoro manuale. Erano passati pochi anni da quando erano sorti monasteri a Cartagine, 43 e già idee pericolose, capaci di falsificare l'ideale monastico e di turbare la Chiesa, si andavano introducendo tra i monaci. Alcuni, e tra essi se ne contavano anche dei più stimati e venerati, si erano messi in testa che i monaci non dovevano attendere al lavoro manuale. A favore della loro tesi presentavano due argomentazioni, alle quali nessuno potrà negare un'apparente forza persuasiva. La prima era l'osservanza integrale del Vangelo, il quale comanda: ne solliciti sitis...respicite volatilia coeli...et lilia agri. Così devono vivere i servi di Dio, dicevano, di elemosina, totalmente abbandonati alla paterna provvidenza del Signore. L'altro motivo era questo: i monaci devono attendere al lavoro spirituale: orationibus, et psalmis et lectioni et verbo Dei, alla preghiera, alla recita dei salmi, alla lettura, alla parola di Dio. Insistevano particolarmente su quest'ultimo punto. Gli stanchi figli del secolo vengono dal deserto del mondo al monastero per incontrare pace e riposo nella preghiera e nella parola di Dio. Noi leggiamo loro la Sacra Scrittura, conversiamo con loro, li consoliamo, li esortiamo, edificando ciò che manca alla loro perfezione 44 Come si vede, questi religiosi consideravano i loro monasteri come centri di vita spirituale anche per i laici, tante altre case, potremmo dire, di esercizi spirituali. Sostenevano che questo fosse il lavoro al quale si riferiva l'Apostolo quando prescriveva che chi non vuole lavorare neppure mangi.
Questi ragionamenti, dicevamo, non mancano di una certa forza persuasiva e si comprende che incontrassero numerosi simpatizzanti tra i religiosi e tra i fedeli. Sant'Agostino, per indicazione di Aurelio, vescovo di Cartagine, risponde nel De opere monachorum, e risponde da psicologo sottile e grande teologo che era; teologo, questa volta, non del peccato originale né della grazia, ma del lavoro manuale. Egli dimostra con abbondanza di testi biblici che il precetto dell'Apostolo - chi non vuole lavorare neppure mangi - bisogna intenderlo alla lettera del lavoro manuale; dimostra, inoltre, che tra San Paolo e il Vangelo non vi è contraddizione; ancor più: trova il modo di farlo con una fine ironia, lasciandoci pagine di straordinaria vivacità e bellezza. Solo coloro che servono all'altare hanno diritto a vivere dell'altare, diritto del quale l'Apostolo non intende far uso, per compassione verso i deboli nella fede, ne videretur venditor Evangelii 45 Pertanto i monaci devono guadagnarsi la vita con il proprio lavoro, e non devono ricorrere all'elemosina dei fedeli, se non per provvedere, quando sia necessario, alle loro necessità: questo per obbedire all'Apostolo, per evitare l'oziosità, per esercitarsi nell'umiltà e per non screditare la vita monastica.
Le eccezioni a questo dovere sono tre: la malattia corporale, le occupazioni ecclesiastiche, la eruditio doctrinae, ossia, l'insegnamento e lo studio 46 Fuori da queste eccezioni, anche quelli che hanno ricevuto un'educazione delicata e hanno dato beni al monastero, non devono mangiare gratuitamente il pane che già è comune. Si cerchino per essi, per tale motivo, dei lavori che richiedano meno attività fisica e più cura e più attenzione intellettuale 47 Tra questi lavori c'è specialmente la trascrizione dei codici. Sappiamo, infatti, che Santa Melania, in Tagaste, si occupava di questo tutti i giorni per un certo tempo, e lo sconosciuto autore della sua biografia ci assicura che scriveva correttamente ed elegantemente 48 Così pure l'autore della vita di San Fulgenzio ci fa sapere che il Santo conosceva bene l'arte dello scrivere scriptoris arte laudabiliter utebatur 49 Si deduce, inoltre, che Eugipio, monaco oriundo dell'Africa, abate di Castrum Lucullanum, giunto a Napoli, autore delle preziose Excerpta delle opere di Sant'Agostino, aveva nel suo monastero una nota scrivania utilizzata dallo stesso San Fulgenzio per copiare i codici 50 Non è esatto dire che la prima scrivania del monachesimo agostiniano fosse in Ippona, nella ricca biblioteca fondata da Sant'Agostino.
Ma dobbiamo mettere in risalto perché la dottrina del nostro dottore in difesa del lavoro non sembra eccessivamente severa; lui vuole, è vero, che i monaci lavorino, però non al punto che l'attenzione nel procurarsi il sostentamento con il proprio lavoro arrivi ad essere una preoccupazione tale, che turbi la preghiera e la vita spirituale; trova perciò degno di lode e lo raccomanda ai suoi fedeli di supplire con le loro offerte a ciò che può mancare ai religiosi. In codesto modo la vita nei monasteri, alternando il lavoro, la lettura, la preghiera, lo studio, trascorrerà serena nella pace della contemplazione e piena di fiducia in Dio, il quale alimenta i suoi figli ora mediante il lavoro, ora attraverso la carità dei buoni. Questo era stato, dal momento della conversione, il grande sogno di Sant'Agostino, sogno che il sacerdozio e l'episcopato avevano bruscamente interrotto, ma al quale il santo tornava spesso con appassionata nostalgia. "Eppure io ... a volermi regolare secondo quello che tornerebbe più comodo a me personalmente, preferirei di gran lunga dedicarmi ogni giorno ad ore determinate, certis horis ... aliquid manibus opereri, et ceteras horas habere ad legendum et orandum, aut aliquid de divinis litteris agendum liberas" 51
Non è necessario sottolineare l'influenza esercitata dal De opere monachorum. Egli ha contribuito affinché il monacato conservasse una delle sue prerogative fondamentali: l'austerità del lavoro. Le parole, per esempio, citate poc'anzi vengono giustamente segnalate come la fonte di quelle altre che si leggono nel capitolo 48 della Regola benedettina, dove si prescrive, per combattere il più pericoloso nemico dell'anima, la otiositas, che i religiosi certis temporibus occupari debent ..., in labore manuum, certis interum horis in lectione divina 52 Ci si permetta di concludere che se la civiltà occidentale ha ricevuto molto dal lavoro dei monaci, deve ringraziare anche il Vescovo d'Ippona il quale ha impedito con la sua autorità facili e pericolose deviazioni in una materia tanto delicata.
Aggiungiamo subito che il lavoro manuale non era l'unica attività che Sant'Agostino assegnava ai monaci. Egli non concepisce i monasteri come dei castelli ove rifugiarsi contro le onde del secolo in cerca di pace e per dimenticare ciò che accade nel mondo, no; li concepisce, anzi, come centri di attività sociale che devono irradiare al loro intorno luce e calore. Prima abbiamo detto che l'esigenza dell'amicizia portò Sant'Agostino a preferire, tra le diverse forme di vita monastica, quella cenobitica; però l'amicizia sovrannaturale, che sente la gioia di ricevere e donare, non si limita solo al monastero, ma si estende anche a quelli di fuori e invade tutta la Chiesa. Di Sant'Agostino, che passò tre anni in ritiro a Tagaste, dice San Possidio che "meditava giorno e notte la Legge del Signore. E tutto ciò che Dio faceva comprendere a lui che meditava e pregava, egli faceva conoscere a presenti e assenti con discorsi e libri" 53 Egli era profondamente convinto di questa Legge della Divina Provvidenza: nessuno riceverà aiuto da chi gli è superiore, per conoscere e ricevere la grazia di Dio, se egli non è diligente nell'aiutare con puro affetto a chi gli è inferiore 54
Quindi, oltre al lavoro manuale, lo studio e l'apostolato; apostolato, è evidente, della parola e della penna. Sullo studio come attività dei monaci non abbiamo un trattato speciale di Sant'Agostino; ma dagli indizi che possiamo raccogliere siamo autorizzati a concludere che nei monasteri agostiniani esisteva, almeno in alcuni, un'accurata formazione intellettuale. Possidio ci assicura che solo dal monastero del Huerto di Ippona, uscirono una decina di uomini santi e venerabili, continenti e dottissimi, che Sant'Agostino acconsentì a destinarli a diverse chiese.55 Ebbene, non si spiega come avessero acquisito questa scienza, se nel monastero non fosse stata data loro codesta formazione intellettuale della quale parliamo. Come nemmeno si spiega l'insistenza di Sant'Agostino nel raccomandare di conservare con cura la biblioteca episcopale - eclesiae bibliothecam omnesque codices diligenter posteris custodiendos semper iubebat - se nei monasteri di Ippona non fosse esistito un ambiente di cultura e di studio. Possidio, inoltre, aggiunge che morendo lasciò i monasteri di uomini e di donne pieni di religiosi e di religiose, e le rispettive biblioteche piene di libri, una cum bibliothecis, che contenevano libri suoi e di altri.56
Secondo la Regola, di fatto devono esserci nel monastero una biblioteca, un bibliotecario e la distribuzione quotidiana di libri.57 Sappiamo, inoltre, dal De opere monachorum, come abbiamo già indicato, che Sant'Agostino immagina nei monasteri ben ordinati un tempo, ogni giorno, destinato ad legendum et orandum aut aliquid de divinis litteris agendum e indica tra le cause che dispensano dal lavoro manuale la eruditio doctrinae spiritualis.
Con quale probabilità si possa considerare la sola lettura a fine educativo, non sapremmo dirlo. Invece, potremmo dire che nei monasteri agostiniani si discutevano questioni filosofiche, teologiche e scritturistiche.58 E che altrettanto accadeva nei monasteri fondati da San Fulgenzio il quale riceveva una grande gioia quando i suoi religiosi nelle discussioni gli proponevano questioni difficili.59 D'altra parte, in quei monasteri si portava a termine anche l'apostolato della parola spiegando la Sacra Scrittura e discutendo di temi utili con quanti venivano al monastero in cerca di verità e consolazione. Questa era esattamente l'occupazione dietro la quale si riparavano i monaci di Cartagine per evitare il lavoro manuale. Ebbene: non si comprende come si possa divinas lectiones exponere, vel de aliquibus questionibus salubriter disputare,60 senza un'adeguata preparazione nello studio delle Scritture. Crediamo, pertanto, di poter concludere che quando Sant'Agostino dice che nei monasteri ben ordinati, oltre al lavoro, alla preghiera e alla lettura, si poteva attendere ad aliquid de divinis litteris agendum indica lo studio delle Scritture, quel complesso e non facile lavoro critico ed esegetico del quale parla egli stesso nel De doctrina christiana.
Così, dunque, con l'esempio e le prescrizioni della Regola ha inserito nel manchesimo un elemento nuovo, originale, fecondissimo, che annuncia l'epopea intellettuale dei monasteri d'Occidente da quelli benedettini a quelli degli Ordini mendicanti e delle Congregazioni moderne. Così, per fare un esempio, il monastero di Cassiodoro, a Vivarium, nel VI secolo, dove vi era un'intensa vita intellettuale era sotto l'influenza del monachesimo africano e Sant'Ildefonso ci assicura che il monaco africano Donato, sbarcò in Spagna, proveniente dall'Africa con molti monaci e molti libri: cum septuagina monachis copiosisque librorum codicibus.61 Dobbiamo riconoscere a questi monaci provenienti dall'Africa il merito di aver salvato l'incomparabile eredità letteraria di Sant'Agostino, e basterebbe solo questo per segnalarli con la nostra ammirazione e gratitudine.
Avvicinandoci alla conclusione del nostro discorso dobbiamo evidenziare un altro elemento che Sant'Agostino introdusse nel monacato, il più originale, il più ardito e più fecondo di tutti: il sacerdozio. Sant'Agostino evitava il sacerdozio come un'enorme responsabilità, ma quando, suo malgrado, dovette accettarlo perché, secondo lui, domino servus contradicere non debet62 non volle privarsi dei vantaggi della vita monastica; ancora più ebbe la rapida intuizione che in quella era una grande forza, un gran segreto per la fecondità della vita apostolica, e unì, audacemente, l'ideale monastico e quello sacerdotale: divenne vescovo e rimase monaco; monaco, diciamo, nel senso più stretto della parola; fece del vescovado un monastero e condusse la vita in comune con i suoi chierici fatti anche religiosi. Lo stesso fecero i suoi primi discepoli Alipio, Possidio, Severo, Profuturo, etc., e lo stesso farà più tardi San Fulgenzio del quale ci dice il biografo che, fatto vescovo, non smise di essere monaco e in nessun luogo dove trascorse la sua vita agitata volle sine monachis habitare.63 Per questo fondò monasteri in Africa, poi in Sardegna, poi di nuovo in Africa. Possiamo dedurre quanto fu geniale ed elevata quest'impresa di Sant'Agostino da un testo di Juan Casiano, il teorico della vita ascetica e il fondatore del chiostro di San Victor a Marsiglia, lo stesso che scrisse le Collationes Patrum, che hanno costituito sempre le delizie dei maestri della vita spirituale.
Mentre il Vescovo d'Ippona prescriveva ai religiosi di non preferire la vita della contemplazione alle necessità della Chiesa, insegnando con l'esempio come si può essere sacerdoti e rimanere monaci - si ricordino le celebri parole dell'epistola 48: si quam operam vestram mater Ecclesia desideraverit, nec elatione avida suscipiatis, nec blandiente desidia respuatis ... nec vestrum otium necessitatibus ecclesie praeponatis ...; mentre, diciamo, Sant'Agostino scriveva queste parole a Eudosio, Superiore di un monastero sito nell'isola di "Capraria" (forse l'attuale Cabrera delle Baleari), dall'altra sponda del Mare nostrum l'abate di San Victor scriveva parole sufficientemente mordaci contro l'inclinazione naturale dei vescovi a cercare sacerdoti nei monasteri: ripeteva, richiamandosi alla saggezza dei Padri, aggiungeva, confermata dall'uso, che i Vescovi e le donne costituiscono il maggiore pericolo dei monaci. Ho qui le sue parole: omni modis monachos fugere debere mulieres et episcopos.64
L'accostamento è forzato, ma sufficiente per mostrare quanto fossero estranei all'ideale sacerdotale i legislatori della vita monastica. Con tutto ciò un secolo più tardi, San Benedetto, per quanto ne sappiamo, non pensava affatto di fare dei suoi monasteri seminari di sacerdoti. L'innovazione agostiniana precorse i tempi e si rivelò sommamente feconda. Essa infondeva nell'istituzione monastica uno spirito nuovo, lo spirito dell'apostolato, la sensibilità per le necessità della Chiesa. Fino a quel momento il monacato aveva risposto alla caritas veritatis, all'amore della solitudine, della contemplazione, della santificazione personale; con Sant'Agostino comincia a sentire la necessitas caritatis,65 la necessità dell'amore verso la Chiesa, che è una madre che deve partorire tanti figli e che non può farlo se non trova chi la assista. Inoltre, la audace iniziativa agostiniana insegnava il segreto e gettava le basi del rinnovamento dei costumi del clero. Il sacerdozio è una cosa tanto grande che il monaco a stento può darci un buon chierico, così pensava Sant'Agostino: vix bonus monachus facit bonum clericum.66 Già in Africa portò a termine questo rinnovamento e il clero rinnovato contribuì con la dottrina, le opere, il sangue, a restituire la sospirata unità alla Chiesa africana.67 Più tardi, lungo i secoli, nei momenti difficili della storia, la chiesa cercò nei monasteri i suoi sacerdoti, i suoi vescovi, i suoi papi. E quando sorse la necessità di plasmare il volto cristiano della società medievale, quando servivano falangi compatte che agitassero la fiamma della scienza e della fede la Regola di Sant'Agostino, che dopo aver influito nelle altre Regole occidentali, era stata eclissata da quelle, tornò a brillare: i canonici regolari, gli Ordini cavallereschi e alcuni Ordini mendicanti la fecero propria.
Ed è allora che si diffondono qua e là in Europa gli "eremiti" che ripetono il nome di Sant'Agostino e seguono la sua Regola. Essi, conducendo la loro vita in comunità fuori dall'abitato, s'ispirarono, forse senza rendersene perfettamente conto, a quei monasteri "rurali" dei quali ne conosciamo almeno due nelle vicinanze d'Ippona, dove, lontano dal rumore del mondo, non si erano preoccupati di altra cosa che della loro propria santificazione. Quando la Chiesa volle che questi "eremiti" abbandonassero la solitudine ed entrassero uniti nelle vie dell'apostolato essi, eredi fedeli dello spirito di Sant'Agostino, obbedirono subito e continuarono ispirando la loro vita ad Ippona; non a quella dei monasteri di campagna, ma a quella dei monasteri di città: del monastero dell'orto e del vescovado.
Da quei monasteri dove, sotto l'umile abito di religioso, visse per quarant'anni il dottore più universale della nostra fede e una delle anime più grandi che hanno onorato la nostra terra, ci arriva ancora oggi, come da sette secoli, un messaggio del monachesimo agostiniano, che c'invita all'amore fraterno e al servizio della Chiesa.