Parlando della spiritualità agostiniana si dice comunemente che il suo principio fondamentale sia la carità. Ciò posto, si descrivono le prerogative di questa virtù - carità dinamica, ascendente, combattente, illuminata, ecc. - con l'intento di spiegare le prerogative della spiritualità agostiniana.
A questo modo di procedere non fa difetto il riscontro di molti testi agostiniani. S. Agostino ha il merito, fra tanti altri, di aver mostrato che la carità è il centro vitale del cristianesimo. Ad essa egli riduce le Scritture 1, ad essa ispira l'esegesi 2, in essa raccoglie il contenuto della teologia 3, della morale 4, della pedagogia 5, della catechetica 6, della vita e della giustizia cristiana 7, perfino della filosofia e della politica 8. Il panorama, sempre uguale e sempre nuovo, ch'egli ci presenta, si dischiude su una linea costante che va da Dio-Amore all'uomo nato per amare. La parola più alta sulla carità è quella di S. Giovanni: Dio è carità 9. C'è qui una lode tanto breve eppure tanto grande 10, esclama S. Agostino. Non poteva Giovanni raccomandarti la carità in modo più incisivo che chiamandola Dio 11. Non v'è dubbio che il Vescovo d'Ippona abbia creato insieme alla teologia della grazia anche la teologia della carità, come essenza della perfezione cristiana, anima della Chiesa, dono di Dio. Si veda la difesa che ne ha fatto contro i Manichei, i Donatisti e i Pelagiani. Ai Manichei ha ricordato che il duplice precetto della carità si trova nell'Antico Testamento e costituisce la sintesi di tutta la Legge e dei Profeti, per cui non v'è motivo di opporre il l'Antico al Nuovo Testamento 12. Ai Donatisti ha dimostrato che la carità è il vincolo che unisce la compagine universale dei cristiani; per conseguenza chi non possiede la carità è fuori dell'unità della Chiesa 13. Contro i Pelagiani ha sostenuto, durante lunghe e asperrime lotte, che la carità non proviene dalle nostre forze, ma è un dono di Dio: Da dove proviene... la carità verso Dio e il prossimo se non da Dio stesso? Infatti se provenisse non da Dio, ma dagli uomini, avrebbero la vittoria i Pelagiani; ma se viene da Dio, siamo noi che vinciamo i pelagiani 14.
È facile dunque dimostrare che per S. Agostino la carità costituisce il centro della concezione etica del cristianesimo. Ma dubitiamo che con ciò si sia raggiunto lo scopo.
Lo scopo era di chiarire il principio fondamentale della spiritualità agostiniana, vale a dire quel modo particolare di concepire le relazioni dell'anima con Dio e di organizzare la dottrina e i mezzi di santificazione, che dà il tono alla vita dello spirito. Si risponde che il modo proprio del Vescovo d'Ippona è quello di orientare tutta la vita e tutta la dottrina cristiana verso la carità 15. Ma questa risposta rischia di cadere nel vago e di peccare per il troppo o per il poco. La carità è per tutti (non può non esserlo) l'essenza e la misura della perfezione. Su questo punto, che tocca la sostanza, non può esserci distinzione tra autore e autore. Se una distinzione c'è, dev'esser trovata altrove: non nella carità, ma nel modo di agevolarne il dominio sull'anima; non sul fine, che è comune a tutti, ma sulla via e sul metodo.
Bisogna dunque distinguere in S. Agostino - come del resto in ogni altro Dottore - ciò che appartiene alla dottrina cattolica, che il Dottore illustra e difende, e ciò che appartiene al suo modo particolare d'intendere e di spiegare la dottrina cattolica. Ora ci pare che la carità come punto di riferimento e di organizzazione della vita spirituale appartenga alla prima categoria. Cercare qui l'essenza dell'agostinismo, sarebbe come cercarla, per ciò che riguarda la grazia, nella difesa, che il Santo condusse vittoriosamente contro i Pelagiani, del peccato originale o della necessità della redenzione. Non si tratta, ci si comprenda, di valutare l'opera dottrinale del Vescovo d'Ippona. In questa valutazione la gloria maggiore non gli proviene da ciò che ha in proprio, ma da ciò che ha in comune, non da una sua particolare teoria, ma dalle verità della fede, alla cui intelligenza e difesa ha portato un contributo sostanziale. In questo caso dovremmo ricordare la dottrina della creazione e il problema del male, l'unità, la santità, la cattolicità della Chiesa e la natura dei Sacramenti; il mistero della Trinità e dell'Incarnazione, la necessità della grazia, la gratuità della predestinazione, la centralità dell'amor di Dio e del prossimo; dovremmo ricordare queste ed altre verità per dimostrare, poi, di quale progresso dogmatico in ciascuna di esse il grande Dottore sia stato lo strumento provvidenziale 16.
Ma qui si tratta di altro. Si tratta di scoprire, se c'è, quel modo particolare d'intendere, chiarire, organizzare la dottrina spirituale, che nasce dall'indole d'un autore, dalla sua anima, dalla sua formazione, dalla sua esperienza. Questo modo particolare c'è in S. Agostino, ed è inconfondibile - del resto, data la sua ricca natura e l'unione, in lui, tra il pensiero e la vita, come poteva non esserci? - ma bisogna cercarlo più a fondo: non nella carità come tale, ma, ripetiamo, nel modo di prepararne l'espansione e lo sviluppo nell'anima. Esso consiste, se non andiamo errati, nella scoperta progressiva e nel metodo dell'amore sociale: è questa scoperta, è questo metodo che aprono la via alla perfetta carità e spiegano il tono caldo ed affascinante dell'agostinismo eterno.
Anzitutto dovremmo dunque parlare dell'uomo Agostino; dovremmo ricordare l'amore che egli ebbe per la verità, le lacrime che sparse per ritrovarla, le fatiche che sofferse per difenderla, il culto e la fedeltà per l'amicizia, l'amore per il suo popolo, il servizio verso la Chiesa, l'umile e gioioso abbandono alla grazia, il senso profondo dell'umana fragilità, la gratitudine a Dio, gli alti doni di contemplazione di cui fu arricchito: in una parola, dovremmo descrivere l'annunziarsi e il fiorire della sua santità. Ma siamo certi che nessuno ignora le note dominanti che caratterizzano l'animo amante e luminoso del figlio di Monica; pertanto ci permettiamo di limitarci all'esposizione della dottrina. In quanto alla sua particolare visione filosofico-teologica, quel tanto che ne interessa confidiamo che emergerà dalle pagine seguenti.
Aquila e palombaro, come ha detto di lui un noto scrittore 17, S. Agostino è salito molto in alto negli orizzonti di Dio ed è sceso molto in basso nel "grande profundum" dell'anima umana 18. L'interiorità di cui egli parla, non è solo intuizione di verità, la verità abita nell'uomo interiore 19, ma rivelazione dell'uomo a se stesso e nelle sue relazioni con l'immutabile; è, insieme all'intuizione delle verità eterne, la rivelazione dell'amore, che si svela come radice dell'attività umana, come rapporto necessario con Dio, come adesione inconsapevole all'eternità, alla verità, all'amore. Vediamo di chiarire queste ricchezze interiori.
a) L'uomo che ottemperi all'imperativo agostiniano e rientri in se stesso, "in teipsum redi" 20, avverte con immediata evidenza che l'amore è causa e anima del dinamismo spirituale. L'amore è un movimento in cerca di quiete: l'amore è uno slancio, e non c'è slancio se non verso qualcosa 21. Anzi, per essere più precisi, è qualcosa che precede il movimento e lo produce. Tutti ricordiamo la bella analogia agostiniana che vede l'amore in funzione del peso: l'amore è il peso dell'anima come il peso è l'amore dei corpi 22. Da questo peso nascono tutte le passioni e ad esso si riducono tutte le virtù. Le anime, come i corpi, sono spinti dal loro peso a cercare il loro luogo 23. Le virtù cardinali, per esempio, non sono che modulazioni dell'amore.
La temperanza è l'amore che si offre integro alla persona amata; la fortezza, l'amore che tutto tollera per colui che ama; la giustizia, l'amore che serve solo l'amato e perciò comanda con rettitudine a chi gli è soggetto; la prudenza, l'amore che sa distinguere con sagacia ciò che gli è d'aiuto da ciò che gli è d'impedimento. Così scriveva S. Agostino già nel 388, a Roma 24. Da quell'anno egli è tornato ad ogni occasione su questo concetto. Si rilegga la lettera 156 diretta a Macedonio. Per ragioni di brevità ci limitiamo a ricordare la nozione agostiniana di virtù: Mi pare che si possa definire in modo sintetico ed efficace la virtù come l'ordine dell'amore 25. La virtù è un amore ordinato, cioè aderente all'ordine stesso delle cose. Suppone pertanto un giudizio di valori ed insegna ad amare di più quel che vale di più e ad amare di meno quel che vale di meno, ad amare in modo assoluto ciò che ha un valore assoluto, e in modo relativo ciò che ha un valore relativo. Il virtuoso è un giusto estimatore delle cose, "rerum integer aestimator est". Da qui la celebre teoria dell'uti e del frui, che tanta fortuna ha avuto nel medio evo 26.
Ma anche le passioni, abbiamo detto, nascono dall'amore. L'amore, buono o cattivo, non può essere inattivo: bisogna che scuota, muova, trascini finché non trovi la "quies" nella cosa amata, alla quale unisce e della quale talmente compenetra l'animo da comunicare ad esso le prerogative di quella. Ed ecco una conseguenza di portata incalcolabile: Ciascuno è tale quale l'amore che ha 27. Le qualità morali dell'uomo si riconoscono non da ciò ch'egli sa, ma da ciò che egli ama 28.
b) Occorre dunque studiare dove tenda il movimento proprio dell'amore. E va subito rilevato che il tendere ad, di cui parla S. Agostino - ci hai fatti per Te 29 - non può essere confuso col dinamismo di certe filosofie moderne nelle quali la tendenza resta senza nessuno che sia teso e senza nessuno a cui sia rivolta la tensione 30. Per S. Agostino il movimento che l'amore genera nell'animo si appunta decisamente in Dio. La sublime grandezza dell'uomo - non c'è creatura più sublime di questa, ... al di sopra di essa non c'è che il Creatore 31 - sta in questo rapporto con l'infinito, rapporto che vuol dire tendenza, ricerca, capacità di possesso: la natura dell'uomo in quanto è capace... della natura suprema, è una natura grande 32. Indice di questa "capacitas" è, sul piano psicologico, il desiderio, l'inquietudine, l'indigenza che dominano lo spirito dell'uomo e la storia dell'umanità. Abbiamo detto: desiderio, inquietudine, indigenza; tre nomi che sono la modulazione d'un solo motivo, il quale risuona ad ogni momento nella grande sinfonia delle opere agostiniane. È il motivo dell'uomo concepito come un movimento, un "esse ad", un essere verso Dio. Tendenza o movimento che non è accidentale all'uomo, ma essenziale; essenziale quanto l'amore, quanto la ricerca della beatitudine. Nulla di più profondo in noi che il voler essere beati. Da questa volontà prende le mosse e al suo appagamento tende l'attività umana. La filosofia, come la virtù non hanno altro punto di partenza né altro termine 32 bis.
Ma la beatitudine, studiata da vicino, si rivela un concetto denso di significati:
- suppone l'immortalità: l'immortalità, senza la quale non può esistere vera beatitudine 33; s'identifica con la sapienza: Non si è saggi se non si è felici 34;
- importa la vera libertà: è vera libertà soltanto quella degli uomini felici e osservanti della legge eterna 35;
- soddisfa i desideri, dona la quiete, colma l'indigenza costitutiva dell'anima: (l'essere ragionevole)... colma la propria insoddisfazione soltanto se è felice e Dio soltanto può colmarla 36.
- Essenzialmente consiste nel godimento del bene sommo: È felice infatti chi gode del sommo bene 37.
c) Ed eccoci condotti al terzo aspetto di questa progressiva scoperta dell'amore: nel profondo dell'essere umano, come v'è un mirabile congiungimento della mente con Dio attraverso la illuminazione, così v'è un'ineffabile, ma inconsapevole amore di Dio. Scrive S. Agostino: Quando cerco te, mio Dio, cerco la vita beata 38. Avrebbe potuto invertire la frase e dire: "Quando cerco la vita beata, cerco te, mio Dio". La ricerca della beatitudine è ricerca di Dio: Seguire Dio è il desiderio della beatitudine, possederlo è la beatitudine stessa 39. Chi vuol essere beato - e nessuno può non volerlo - chi vuol essere beato ama di essere, di conoscere, di amare. Ne è prova la fuga istintiva dell'inganno, del dolore e della morte. Dunque l'uomo felice vuole altro che non essere ingannato, non morire, non soffrire? 40.
Ma, se ben si osserva, amare di essere è amare l'eternità 41, amar di conoscere è amare la verità 42, amare di amare è amare l'amore. Nessuno dica: "non so cosa amare". Ami il fratello ed amerà l'amore stesso 43. Per quanto il peccato ci abbia allontanati dai gaudi eterni, non ne siamo separati al punto, scrive bellamente S. Agostino, da non cercare anche nelle cose materiali e temporali l'eternità, la verità, l'amore:... al punto di rinunciare alla ricerca dell'eternità, della verità e della beatitudine anche in queste cose mutevoli ed effimere 44. Se infatti non amassimo la fonte stessa della luce, della bellezza, dell'ordine, come potremmo cercarne così avidamente i riflessi qua e là nelle cose? La dottrina dell'amore è sviluppata da S. Agostino parallelamente a quella della conoscenza da cui è inseparabile; come nulla potremmo conoscere se non ci fosse in noi la luce dell'eterna Verità, così nulla potremmo amare se non avessimo l'attrazione dell'eterno Amore. Anzi, possiamo aggiungere che l'attrazione dell'Amore svolge sul piano dell'azione lo stesso compito che il "lumen veritatis" sul piano della conoscenza. Illuminati dalla verità, conosciamo noi stessi e le cose, cogliendo in esse le "ragioni eterne" di cui sono partecipi: attratti dall'amore, lo cerchiamo insaziabilmente in tutte le cose, amando, spesso purtroppo senza avvedercene, l'eterno nel temporale, l'immutabile nel contingente, il bene assoluto ed universale nelle cose relative e particolari.
Non fa meraviglia quindi che S. Agostino, capovolgendo opinioni correnti, ieri come oggi, dichiari che l'amore del mondo è più faticoso dell'amore di Dio. Difatti nelle cose del mondo cerchiamo affannosamente ciò che non hanno, ciò che non possono darci, perché quel che cerchiamo è solo di Dio. L'amore di questo mondo presenta maggiori difficoltà. Infatti l'anima non trova in esso quel che cerca, cioè l'essere fuori del movimento nell'eternità 45. Come pure non ci sorprende la dottrina agostiniana che vede nei vizi una perversa imitazione delle perfezioni divine. Anche allontanandoci da Dio, cerchiamo Dio. Ti imitano, alla rovescia, quanti si separano da Te e si levano contro di Te. Ma anche imitandoti, a loro modo, provano che tu sei il creatore dell'universo e quindi non è possibile allontanarsi in alcun modo da Te 46.
Ben a ragione dunque nella solitudine di Cassiciaco S. Agostino invoca il Signore così: O Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no 47. Che lo sappia o no, tutto ciò che è capace di amare, ama Dio. L'aristotelico "movet ut amatum" trova in questa dottrina l'applicazione più universale e più vera.
Gioverebbe studiare come questa dottrina dell'amore inconsapevole verso Dio si ritrovi in tutte le grandi opere agostiniane; anzi, come serva loro da ordito sul quale il grande Dottore tesse la tela del suo pensiero. Dobbiamo limitarci a rapidi cenni, che, per essere brevi, speriamo che non siano inutili.
Le Confessioni non sono che una grandiosa orchestrazione intorno al motivo fondamentale espresso dalle celebri parole: Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te 48.
A 16 anni Agostino si accorge che l'amore è la molla segreta della vita. Non amava ancora, ma amava di amare. "Nondum amabam et amare amabam". Questa forma di amore era una occulta indigenza di Dio; ma Agostino non lo sapeva. Avevo dentro di me un appetito insensibile al cibo interiore, a te stesso, Dio mio, e quell'appetito non mi affamava 49. Lo scoprirà a 19 anni leggendo l'Ortensio. Dopo quella lettura cadde negli errori, ma anche in essi cercò la verità che è il bene supremo dell'anima 50.
L'esperienza delle terrene passioni nonché saziare la sua fame interiore l'acuirono. Voltati e rivoltati..., ma tutto è duro, e Tu solo il riposo 51. Plotino lo libera dal materialismo manicheo, e si accorge allora con meraviglia di amare Dio e non più un fantasma a posto suo: Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece 52. La fede in Cristo gli indica la via e gli impetra la grazia. La conversione e la vocazione religiosa non sono che un epilogo del ritrovato amore.
La seconda parte delle Confessioni ci spiega come Dio sia presente nella nostra memoria e come Agostino salga, purificandosi, verso l'eterna Bellezza, dove solo l'amore umano trova riposo:... speriamo di riposare nella tua grandiosa santità. Tu però... riposi eternamente, poiché tu stesso sei il tuo riposo 53. Sono le ultime parole delle Confessioni.
Nel De Civitate Dei S. Agostino ci dà la formula più concisa del suo pensiero quando chiama Dio la causa del sussistere, la ragione del pensare e la norma per vivere 54, indicando con ciò il triplice vincolo ontologico - essere, verità, amore - che ci ricollega a Lui.
L'idea centrale di questo ingens opus sta nella pace. Si rilegga il capo 13 del libro 19. Ma la pace vera non s'intende se non come armonia dell'uomo con se stesso e con Dio, e appunto con se stesso perché con Dio. Il termine della Città di Dio sarà il raggiungimento di questa perfetta armonia. In lui, cioè in Dio, il nostro esistere non avrà fine, in lui il nostro conoscere non incorrerà nell'errore, in lui il nostro amare non incontrerà ripulsa 55. Vi sarà dunque in quella Città una sola libera volontà in tutti e inseparabile in ognuno 56; ...la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene 57. Mentre il termine della città del demonio sarà il contrasto eterno o, per usare l'espressione agostiniana, l'eterna guerra tra ciò che l'uomo è e ciò che vuole: vuol essere beato ed è infelice; volontà e dolore, termini antitetici, ma indistruttibili 58.
Nel De Trinitate questa dottrina ritorna a proposito della indagine, cosi geniale e profonda, che studia l'uomo quale immagine della Trinità; se altrove simile dottrina ha un tono più drammatico, qui raggiunge un tono più caldo; più intimo, che ci svela le recondite profondità dell'anima in cerca di Dio.
La somiglianza divina è connaturale all'uomo: è impressa nella sua mente che conosce ed ama e sé in sé rigira: ... Lo spirito, il suo amore e la sua conoscenza sono tre cose e queste tre cose non ne fanno che una e, quando sono perfette, sono uguali 59.
Oggetti (principali) della conoscenza e dell'amore, Dio e l'anima. Tutti ricordiamo il celebre binomio agostiniano: Desidero avere scienza di Dio e dell'anima. E nulla di più? Proprio nulla 60.
Nella conoscenza di sé e di Dio - memoria, intelligentia, voluntas - S. Agostino trova l'"evidentior trinitas", che ci dà una qualche immagine della Trinità divina. Ma come la nostra mente, congiunta a se stessa per identità di natura, ha una memoria, una conoscenza, un amore abituale di sé - lo spirito umano è così costituito che mai cessa di ricordarsi di sé, mai di comprendersi, mai di amarsi 61-, così, congiunta a Dio per la partecipazione dell'essere, della verità, dell'amore, ha una memoria Dei cui va unita inseparabilmente la conoscenza e l'amore: ... come è immanente l'intelligenza, è immanente anche l'amore a quella memoria che ne è il principio, in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l'atto del pensiero.. 62.
Memoria, intelligentia, voluntas Dei che hanno una portata metafisica e dalle quali procede sul piano psicologico ogni conoscenza attuale ed ogni volere. A questo piano metafisico ci pare che si richiami S. Agostino quando proclama che, se tutti gli uomini vogliono essere beati e nessuno può volere ciò che completamente ignora, tutti gli uomini conoscono la vita beata... ne consegue che tutti sanno cos'è la vita beata 63. L'anima dunque che prende coscienza di sé come immagine della SS. Trinità penetra nel fondo del proprio essere, dove brilla la luce divina e dove freme l'anelito verso l'eterno 64.
Questa dottrina, che abbiamo chiamato della scoperta o rivelazione dell'amore, non è che una premessa. Da essa deriva la legge che riassume tutta la vita dello spirito. V'è dunque in noi un volere fondamentale e vi sono voleri particolari: quello è necessario e questi sono liberi. Ne segue che il nostro dovere è uno solo, quello di far coincidere la volontà libera con la volontà necessaria, la superficie con il fondo dell'anima. Questa coincidenza costituisce la virtù: se iniziale, una virtù iniziale; se matura, una virtù matura; se perfetta, una virtù perfetta. Il contrasto invece costituisce il peccato, mortale o veniale secondo la natura di esso. Amare dunque liberamente ciò che amiamo necessariamente. Ecco la regola. Il precetto cristiano della carità è l'interpretazione divina di questa regola, e insieme la soluzione del problema fondamentale agitato dalla filosofia antica, il problema del bene supremo. Il nostro bene, infatti, sul cui fine tra i filosofi esiste una grande controversia, non è altro che vivere in unione con Dio... Ci si comanda di amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la virtù 65.
A questa regola s'ispira S. Agostino quando chiarisce a sé e agli altri la volontà con la quale vogliamo il bene supremo, volontà ch'egli chiama eccellente e degno di grande lode 66, perché anima e muove tutta la vita dello spirito, e costituisce quel fondo divino che il peccato non ha potuto distruggere e a cui bisogna tornare per essere liberi e perfetti. Difatti, invitandoci alla perfezione, egli c'invita non a rinnegare noi stessi, ma a ritrovarci, c'invita a cercare quel che cercavamo, ma in modo diverso e in luogo diverso da come e da dove si cercava.
Così, a proposito della pace, ci ammonisce gravemente che non la troveremo dove la cerchiamo. Non vi è quiete dove voi la cercateCercate pure - continua esortando -. Cercate ciò che cercate, ma ricordatevi che non è là dove la cercate. Voi cercate la felicità della vita nella regione della morte: non c'è. Come può trovarsi vita beata là dove nemmeno c'è vita? 67. S. Agostino non reprime il desiderio della vita beata, anzi lo ravviva e lo infiamma, perché da esso parte e ad esso torna, in definitiva, ogni nostra azione. Dovete certamente cercare la vita, esclama, cercare giorni sereni; ma avverte subito, ma si cerchino dove possono trovarsi 68. Scrivendo a Proba una lunga lettera sulla preghiera, ne riassume l'oggetto con queste brevi parole: chiedi la vita beata. E continua: "tutti gli uomini vogliono la vita beata. Che cosa dunque dovrai chiedere pregando se non ciò che bramano e buoni e cattivi, ma a cui non pervengono se non i buoni? 69. Non si tratta dunque di mortificare le più profonde aspirazioni dell'animo, ma di ritrovarle, si tratta di liberarle dalle sovrastrutture della colpa e di conformare ad esse la vita. La santificazione è in gran parte una purificazione.
Ma a questo punto si annuncia un dramma profondissimo: l'applicazione d'una legge che sembra e dovrebbe essere tanto facile - di altro non si tratta che di concordare noi con noi stessi -: è tutt'altro che facile, anzi è naturalmente impossibile.
È il dramma dell'uomo che è ciò che non vuole e vuole ciò che non può: è soggetto alla morte e non vuol morire, è soggetto al dolore e non vuol soffrire, è soggetto all'ignoranza e alle passioni e ne ha rossore, è legato alla dispersione del tempo e vuol raggiungere l'unità di ciò che è eterno.
V'è nell'uomo quel "error horrendus" - per cui, non volendo che il proprio bene, agisce così spesso per il proprio male 70, v'è una falsità - non irragionevolmente il peccato in senso assoluto può essere considerato menzogna 71 - v'è un motivo perpetuo di vergogna: ama le cose perché son buone e non ama (con atto cosciente e libero) il Bene da cui hanno ricevuto di esser buone 72.
L'amore di cui parliamo si rivela tremendo, ma insieme povero ed indigente: non può ciò che vuole. Vuole trascendere il tempo e non lo può, vuol purificarsi dal male e non lo può 73. Non gli resta che chiedere. Da ciò proviene in S. Agostino quell'atteggiamento umile di attesa e di supplica che trova la sua espressione in un'immagine suggestiva: un filo d'erba assetato. "Signore, egli esclama nelle Confessioni, non disdegnare questo tuo filo d'erba assetato 74.
All'amore indigente dell'uomo ha risposto l'amore sovrabbondante di Dio. L'Incarnazione. "Scendo io, giacché tu non puoi salire" dice il Signore: "Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe" 75. Il pensiero agostiniano, che va dall'uomo a Dio, passa necessariamente attraverso il Verbo incarnato. Diciamo il pensiero, perché egli non trova altra soluzione al problema del male che quella offerta da Gesù Cristo. Per il Verbo incarnato la teologia della carità diventa teologia della grazia e la teologia della grazia teologia dell'umiltà. Gli accenti teneri ed appassionati con i quali S. Agostino parla di Gesù, medico delle anime, dipendono dalla profondità con la quale egli ha inteso il problema del male, male morale e male fisico; come il profondo sentimento del male dipende dall'aver scoperto la grandezza dell'amore cui il male si oppone.
Alla scuola di Gesù Cristo dobbiamo imparare a porre rimedio a quella terribile frattura che il peccato ha operato in noi separandoci da noi stessi e, perciò, da Dio e dal prossimo. Abbiamo detto che bisogna riportare la concordia tra il fondo e la superficie del nostro essere; in altre parole, tra l'amore di Dio e l'amore di sé. A questo proposito ci sono in S. Agostino due serie di testi, i quali, considerati separatamente o messi insieme senza un lavoro di sintesi, hanno condotto ad errate conclusioni.
Una serie insiste sulla irriducibile opposizione tra l'amor sui e l'amor Dei. Basti ricordare il celebre testo del De Civitate Dei sulla distinzione delle due città: l'una, la città di Dio, fondata sull'amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé, e l'altra, la città terrena, sull'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio 76. La forza di questo passo è tale che non occorre aggiungere altro. Vorremmo solo ricordare un testo dei Sermoni, dove S. Agostino indica nell'amor sui la causa prima della perdizione dell'uomo: All'inizio l'uomo si perse per l'amore di sé 77.
Quest'opposizione tra l'amor Dei e l'amor sui si converte di necessità nell'altra esistente tra la "caritas" e la "cupiditas". La ragione è ovvia. L'amore è di tal natura che non può essere inerte, ma suscita un movimento che sale o discende: ogni amore o ascende o discende; dipende dal desiderio, se è buono ci innalziamo a Dio, se è cattivo precipitiamo nell'abisso 78; o tende a ciò che è superiore all'uomo o a ciò che gli è inferiore: non può restare nel mezzo. Chi dunque ama se stesso separandosi da Dio, non resta in sé: il peso della natura lo trascina ad uscire da sé e lo porta ad abbattersi famelico nelle cose esteriori, mondane e temporali 79. Questo appunto è la "cupiditas": "amor mundi" 80; mentre al polo opposto la "caritas" porta ad amare beni interiori, celesti ed eterni. L'opposizione tra la "cupiditas" e la "caritas" come quella tra l'"amor sui" e l'"amor Dei" governa tutto il pensiero spirituale di S. Agostino 81.
Ma ecco, v'è in S. Agostino un'altra serie di testi, non meno ricca della prima, da dove risulta che l'"amor sui" e l'"amor Dei" sono in perfetta armonia. L'uomo ama necessariamente se stesso. Lo spirito umano è così costituito... che mai cessa di amarsi 82; ma l'amore di sé non può non essere amore di Dio, anzi solo chi ama Dio sa amare se stesso. È impossibile infatti che chi ama Dio non ami se stesso, anzi sa amarsi solo chi ama Dio 83.
Questa affermazione del De moribus ecclesiae catholicae torna negli scritti agostiniani con frequenza che potremmo dire monotona e costituisce una delle intuizioni più profonde del Vescovo d'Ippona, il quale insiste nel sostenere che nessuno si ama non amando Dio, e che colui che ama Dio, e non se stesso, ama veramente se stesso. C'è qualche cosa d'inesplicabile e di misterioso in questo fatto per cui l'uomo si ama non amandosi e non si ama amandosi. Non so in quale inesplicabile modo avvenga che chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso, mentre chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso 84. Non c'era dunque bisogno d'un particolare precetto di amare noi stessi, esso è contenuto in quello di amare Dio. Difatti, pur essendo tre gli oggetti che dobbiamo amare - Dio, noi stessi, il prossimo -, i precetti della carità sono due, di Dio e del prossimo: ...con ciò Dio volle farci capire, naturalmente, che non esiste altro vero amore, con cui si ama stessi, tranne quello di Dio. Deve infatti dirsi che amarsi in modo diverso è odiarsi 85.
Come accordare questi testi? A qualcuno potrebbe venire in mente di accennare a contraddizioni, che sarebbero insite, qui come altrove, nella dottrina agostiniana. Ne abbiamo avuti dei saggi anche di recente, che preferiamo non ricordare. Per noi la soluzione è troppo comoda e nasconde un'accusa troppo grave: solo la pigrizia nel ricostruire tutti gli aspetti della dottrina o l'ignoranza possono suggerirla. L'accordo tra le due serie di testi esiste, ed è mirabile: è riposto, a nostro parere, nella distinzione tra il piano ontologico e quello psicologico, distinzione che riassume quanto abbiamo detto sopra e lo conferma 86.
Sul piano ontologico non v'è opposizione tra amore di sé e amore di Dio; al contrario, v'è correlazione necessaria e rispondenza piena. L'amore, come il pensiero, è teistico. L'uomo non si conosce, se non si riconosce come partecipe della verità che è sopra di lui; allo stesso modo non si ama se non aderisce al bene cui l'intrinseca finalità della natura lo porta. In altre parole: l'uomo non si ama veramente se non come immagine di Dio qual è in realtà; ma chi si ama come immagine, si ama in ordine a Colui di cui è immagine, poiché uno solo è il movimento verso l'immagine e verso l'esemplare, e l'immagine è tanto più immagine quanto più è vicina all'esemplare.
Chiedersi allora se la dottrina agostiniana intorno all'amore sia antropocentrica o teocentrica - sit venia verbis - non ha significato, quando S. Agostino insiste, appunto, nell'intima e necessaria correlazione tra l'amore di Dio e l'amore di sé. In forma paradossale potremmo dire che la dottrina agostiniana è antropocentrica in quanto teocentrica, ed è teocentrica in quanto antropocentrica. Il Vescovo d'Ippona vede costantemente l'uomo in Dio e trova costantemente Dio nell'uomo.
Teocentrismo e antropocentrismo son dunque formule monche che la dottrina agostiniana supera e ravviva nell'unità della sintesi, non distruggendo i due poli, come farà Lutero, ma conservandoli intatti ambedue, necessariamente distinti e necessariamente uniti; come i fuochi di un'ellisse. Si ricordi la dottrina della partecipazione, in forza della quale il pensiero agostiniano sale e discende tra l'uomo e Dio per le vie dell'essere, della verità e dell'amore. Questa dottrina esige, come si sa, che i due termini - partecipante e partecipato - siano distinti, ma inseparabili.
L'opposizione dunque tra l'amore di sé e l'amore di Dio non esiste sul piano ontologico; esiste invece, e soltanto, sul piano psicologico, dove il peccato ha introdotto, sventuratamente un grave disordine. A causa di questo disordine l'uomo è portato, per errore o per malizia o per le due ragioni insieme, a cercare il suo bene non in Dio, ma in se stesso mentre il bene vero dell'uomo non può essere che Dio. S. Agostino enuncia questa legge con le seguenti parole: "se la nostra natura procedesse da noi, non v'è dubbio... che il nostro amore, da noi partendo e a noi tornando, ci basterebbe per essere beati, né avremmo bisogno d'un altro bene di cui godere; ma poiché la nostra natura ha bisogno di Dio per essere... ha bisogno di Dio per essere beata" 87.
Il nostro dovere è dunque quello di riportare l'ordine dove il peccato ha introdotto il disordine, di riportare, cioè il piano psicologico alla perfetta concordia con quello ontologico. È quello che S. Agostino chiama amarsi senza amarsi: Preferisci alla tua la volontà di Dio; impara ad amarti non amando te stesso 88; oppure seguire se stessi fuggendosi: ...perché fuggendo da te insegui te, e inseguendo te aderisci a Colui che ti ha creato 88 bis. Ed eccoci ricondotti, per altra via, alla legge già enunciata.
Questa legge, su cui insistiamo, ha una portata spirituale immensa. Se compresa ed applicata, induce a sentire, in nome del nostro io più profondo e più vero, non tanto il dovere quanto il bisogno di amare Dio e di osservarne i comandamenti. Questo bisogno, lungi dall'affievolire il senso del dovere, ne rende spontaneo, facile e gioioso il compimento, come di cosa che, pur venendo dal di fuori, trova tanta rispondenza dal di dentro, e diventa, per così dire, connaturale. Tale connaturalità, termine e premio di un lungo cammino, è causa del bene inestimabile della libertà, quella promessa da Gesù 89, proclamata da S. Paolo 90, difesa, con tanta passione, da S. Agostino. La vocazione cristiana è vocazione di libertà; ma alla libertà non si arriva se non attraverso il ritrovamento di sé, l'unità interiore, l'accordo pieno tra la superficie e il fondo dell'anima. Ci sia consentito di citare un testo almeno del Vescovo d'Ippona. "Siamo stati giustificati gratuitamente per la grazia di Lui. Non dunque giustificati, continua il S. Dottore, per la legge (delle opere) e neppure per la propria volontà, ma giustificati gratuitamente per la grazia di Lui; non già che ciò avvenga senza la nostra volontà, ma la nostra volontà è rivelata inferma dalla legge, affinché la grazia sani la volontà e la volontà sanata adempia la legge, non più costituita sotto la legge, né più bisognosa della legge" 91. A queste vigorose parole non troviamo commento migliore dei versi di Dante Alighieri, il quale fa dire di sé a Virgilio, nel momento in cui il "maestro" si apprestava a lasciarlo ad altra guida nel fatale cammino d'oltre tomba:
"lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' dell'erte vie, fuor se' dell'arte...
libero, dritto e sano è tuo arbitrio...
per ch'io te sovra a te corono e mitrio" 92.
Per concludere questo primo aspetto della nostra indagine, pare di poter dire che, insistendo sulla scoperta progressiva dell'amore e sulla legge fondamentale che ne consegue, abbiamo toccato un motivo specifico dell'agostinismo e un argomento luminoso nella vita dello spirito. Ma non siamo ancora alla meta. Se la lotta tra egoismo e carità si svolge sul piano psicologico e dall'esito di questa lotta dipende l'applicazione di quella legge, dobbiamo cercare, e possibilmente trovare, un metodo che ci permetta di combatterla validamente e di vincerla. S. Agostino ce l'offre con quello che vorremmo chiamare il metodo dell'amore sociale.
Il nome e il concetto dell'amore sociale sono agostiniani. Ci riferiamo ad un testo del De Genesi ad litteram, che annunzia l'opera del De Civitate Dei e ne riassume l'idea madre. Il testo suona così: Questi due amori ... l'uno sociale, l'altro privato... segnarono la distinzione tra le due città fondate nel genere umano...: e cioè la città dei giusti l'una, la città dei cattivi l'altra" 93. Leggendo queste parole ci siamo domandati se l'opposizione tra amore sociale e amore privato, posta a base delle due città, rispondesse a un motivo profondo e vitale dell'agostinismo, o non fosse piuttosto un'espressione messa lì insieme a tante altre, priva quindi di particolare significato. Lo studio di altri testi agostiniani - l'idea, se non l'espressione, è presente fin da principio nelle opere di S. Agostino - ci hanno persuaso che la prima ipotesi sia la vera.
La nozione di Dio come "bonum commune" insieme a quella di "summum bonum" ricorre nei Soliloquia 94, nel De moribus ecclesiae 95, nel De libero arbitrio 96, nel De vera religione 97, nel De sermone Domini in monte 98, nel De dottrina christiana 99, per citare solo le prime opere, e torna spesso, come motivo, nei Discorsi 100. Ecco un testo riassuntivo: Dio è di tutti e a tutti in comune si concede per essere goduto, intero in tutti, intero in ciascuno.. 101.
Questo particolare è già stato notato, come pure il carattere sociale della beatitudine e la possibile dipendenza della spiegazione agostiniana dell'amor del prossimo dal concetto di "vita socialis" della filosofia antica 102.
Ma v'è qualcosa di più da mettere in rilievo, vogliamo dire la fondamentalità dell'opposizione tra amore privato e amore sociale e la ragione insita in essa di un metodo spirituale. È quanto vorremmo dire nelle pagine seguenti.
Osserviamo subito, per cominciare, che S. Agostino mostra di ritenere che fra tutte le prerogative attribuite da S. Paolo alla carità, una è il fondamento delle altre, e precisamente quella del disinteresse: La carità non cerca il suo interesse.. 103. Con ciò siamo agli antipodi dell'interpretazione di Anders Nygren, ma non è colpa nostra. Anders Nygren, infatti, nel lungo studio dedicato alla nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, che termina con una esaltazione della concezione luterana della "caritas", scrive che la definizione che S. Agostino dà dell'amore - l'amore sarebbe essenzialmente un desiderio, una ricerca del proprio bene - esclude affatto l'idea di S. Paolo; e il Vescovo di Ippona non avrebbe potuto conciliare la sua definizione con le parole dell'Apostolo se non in grazia d'una restrizione, dicendo che la carità non cerca il proprio bene, ma solo in questa vita. E cita il commento al Salmo 121, 12 dove si legge "caritas... non sua quaerit in hac vita". Ora, proprio l'opposto è vero. E ci dispiace per quanti, che non sono pochi, qualificano la dottrina agostiniana, come fa Anders Nygren, di eudemonismo 104
S. Agostino ha posto tra l'amore terreno e l'amore celeste questa netta opposizione: il primo cerca le cose proprie, il secondo le cose che sono comuni. La città di Dio nel suo ultimo stadio, nel cielo, avrà appunto questo segno distintivo: nessuno dei cittadini cercherà ciò che è proprio, nessuno amerà le cose private, nessuno godrà dei beni come suoi. Sarà, quindi, il compimento perfetto di quanto dice S. Paolo: caritas non quaerit quae sua sunt. Ecco un testo espressivo: Il proposito dell'uomo che cerca ciò che è suo e non ciò che è di Dio riesce pernicioso a lui stesso. Nella celeste eredità, che è Dio stesso... nella società dei santi, non soffriremo angustie a causa dell'amore delle cose nostre come di cose private. Non v'è dubbio che quella gloriosissima città, raggiunta che abbia l'eredità promessa... non avrà cittadini dei quali ciascuno possieda e goda del bene proprio, poiché Dio sarà tutto in tutti. Chi in questo terreno pellegrinaggio desidera fedelmente e ardentemente questa società con Dio, si abitua a preferire le cose comuni alle private, cercando non il proprio, ma ciò che è di Gesù Cristo" 105. In questo testo troviamo indicati la meta da raggiungere (il bene "comune"), e il metodo da seguire (l'amore del bene "comune"); che è quanto dire, la sostanza di ciò che andiamo esponendo. Nella frase citata da Anders Nygren, quel "in hac vita" non restringe, ma chiarisce il senso delle parole dell'Apostolo. Infatti solo in questa vita l'uomo può cercare "quae sua sunt", a causa del disordine operato dal peccato; nell'altra vita no, dove: Avremo una comune visione: Dio. Avremo un comune possedimento: Dio. Avremo una pace comune: Dio 106.
Ma torniamo al testo del De Genesi ad litteram per approfondirne il significato. Se lo riavviciniamo a quello più celebre del De civitate Dei, dove l'opposizione delle due città viene riassunta nell'"amor Dei" e nell'"amor sui", troviamo che il primo è più universale e contiene la spiegazione del secondo. In effetti, l'"amor socialis" comprende l'"amor Dei", l'"amor proximi" e l'"amor sui" ordinato; mentre l'"amor privatus" abbraccia l'"amor sui" perverso e la "cupiditas". L'"amor sui" è perverso appunto perché "privato"; se fosse "sociale", coinciderebbe con l'amore di Dio e del prossimo e sarebbe ordinatissimo, com'è ordinato quello che si muove sul piano ontologico verso il "summum bonum" che è, insieme, il "bonum commune".
L'amore "privato" è l'amore delle cose proprie, "amor rei propriae". Il nome viene dalla privazione d'un bene maggiore cui si condanna chiunque si lasci vincere da esso 107. Questo bene maggiore è precisamente il bene comune: ...la superba brama di elevarsi viene precipitata nel bisogno e nella miseria poiché, a causa del funesto amore di sé, dalla ricerca del bene comune si restringe al proprio bene individuale 108.
Si osservi che S. Agostino chiama cosa propria e privata tutto ciò che si possiede, o si desidera possedere, con esclusione di altri, quindi il potere, la gloria, le ricchezze; tutto quanto si riferisce, in una parola, al sé in opposizione agli altri. Appartiene dunque all'amore "privato" l'immenso campo in cui si esercita l'egoismo e la cupidigia. Ciò posto, non fa meraviglia che il Vescovo d'Ippona faccia derivare dall'amore "privato" il peccato, i vizi e tutti i mali del mondo.
Anzitutto il peccato, che è una flessione dal bene comune al bene proprio. Già nel De libero arbitrio, descrivendo la colpa, al consueto binomio di bene immutabile e beni mutabili aggiunge quello di bene comune e bene proprio 109. Ed è in chiave di questo secondo binomio che ci parla, per esempio, del peccato degli Angeli: Gli uni vivono costantemente in quel bene universale (che è il loro Dio, e permangono nella sua eternità, verità, carità); gli altri invece, allettati dal proprio potere come se fosse il loro bene, hanno abbandonato il superiore bene universale, fonte di felicità, per il proprio 110. Mentre altri restarono fedeli al bene comune, altri se ne staccarono, preferendo il bene privato. E quali frutti ne colsero? Molto amari. Invece dell'eternità ebbero il fasto dell'orgoglio, invece della verità l'astuzia della vanità, invece della carità la parzialità, "studia partium".
Lo stesso avvenne del primo uomo, lo stesso di tutti quelli che peccano: diventano uomini di parte e si trovano, ipso facto, in contrasto con il tutto, con Dio e con le creature che sono state create per formare una società con Lui.
Per entrare in questa società, cioè, in altre parole, nel regno di Dio, è condizione essenziale amare le cose comuni più delle private. "Quid mirum, esclama il S. Dottore commentando un passo del Vangelo (Lc 14,26), Che c'è dunque di straordinario se non perviene al regno di Dio chi ama non ciò che appartiene a tutti, ma ciò che è suo soltanto? E perché non tutte e due? dirà qualcuno; anzi una sola, risponde Dio. Difatti la Verità ha detto: "non potete servire a due padroni (Mt 6, 24)" 111.
Posto questo contrasto tra il bene comune e il bene privato, si capisce da sé che dall'amore di quest'ultimo, come da fonte avvelenata, nascano i vizi. Basti la descrizione d'uno solo, di quello che è il principio di tutti i peccati e causa di tutti i mali, la superbia. La superbia altro non è che amore della propria eccellenza 112, l'amore della propria grandezza e in quanto propria. Il superbo vuol godere del suo bene come d'un bene privato, in contrasto al bene comune a cui si oppone e da cui si separa. È l'amore privato, quindi, che genera la superbia, come l'amore del bene comune genera la carità, che ha per distintivo, appunto, di non cercare "quae sua sunt" 113. Nasce da qui una conclusione importante: l'antitesi tra superbia e carità, che si fa risalire d'ordinario a quell'altra stabilita da S. Agostino tra l'amore di sé e l'amore di Dio, va risolta invece, secondo lo stesso Dottore, in una terza, più profonda delle altre e causa di esse, nell'antitesi che corre tra l'amore del bene privato e l'amore del bene comune. Questa equazione ci dispensa dallo spendere altre parole sull'argomento. Uno sguardo in noi e fuor di noi, e ci convinceremo che le cose stanno proprio così. È a causa delle proprietà private, scrive S. Agostino, che ci sono tra gli uomini liti, inimicizie, scandali, peccati, malvagità, omicidi. Per quali motivi tutto questo? A motivo delle proprietà possedute in privato. Succede mai infatti che litighiamo per quanto possediamo tutti in comune? 114.
Queste parole, se intese sul piano materiale, ci porterebbero a conclusioni apertamente false. Ma non su questo piano parla S. Agostino. Apparirà senza equivoci quando avremo raggiunto il concetto dell'amore "sociale", che è il centro di gravitazione della città di Dio. Per capire il concetto di amore "sociale" non dobbiamo perderci in disquisizioni sulla socialità dei beni terreni. Non di questo si tratta. S. Agostino si muove su un altro piano. Che poi dal suo concetto o ideale, compreso a dovere e messo in pratica, nasca una maggiore sensibilità per i problemi sociali nel senso corrente del vocabolo, che il clima spirituale da esso creato sia il più adatto per attutire le divisioni, unire gli uomini a risolvere le loro questioni anche terrene, è un'altra cosa: può essere un suo merito, ma non è la sua natura. Questa è di ordine più alto, spirituale e soprannaturale. Per comprenderlo bisogna studiare la "vita socialis" dei santi. Che il Vescovo d'Ippona, parlandone, riprenda un'espressione della filosofia greca, non importa molto 115. Quel che importa è conoscere il concetto nuovo ch'egli inserisce nell'espressione antica.
Gli elementi che formano questo concetto nuovo sono due, quello che trasferisce la vita sociale dalla terra al cielo e quello che la fonda sul precetto cristiano della carità. Prima di tutto S. Agostino insiste nel dimostrare che la vita sociale qui in terra, qualunque sia, o quella naturale dell'amicizia, della famiglia, della città, del genere umano o quella soprannaturale dei giusti, è soggetta alle necessità temporali, è turbata ed angustiata dal male, è priva della vera pace, è dunque imperfetta, anzi imperfettissima. La perfetta vita sociale è solo dell'al di là.
Inoltre, la vita sociale non può essere fondata che nell'amore di Dio e del prossimo o, per usare una sola parola, nell'amore del bene comune.
Il bene comune, che costituisce la forza d'attrazione e di unità della vita sociale, non è che Dio. Coloro che hanno in comune questo Bene formano con Colui con il quale sono uniti e tra di loro una santa società e sono l'unica città di Dio 116. Ma non Dio soltanto, bensì anche le perfezioni divine partecipate dai Santi. La nozione più breve e più completa della città di Dio è quella che S. Agostino ci dà parlando della pace: ...la pace della Città celeste è la società che ha il massimo ordine e la massima concordia nel godere di Dio e nel godere reciprocamente in Dio.. 117. Società ordinata e concorde nel possesso e nel godimento di Dio e gli uni degli altri in Dio. Ciò è possibile, perché i beni divini possono appartenere contemporaneamente ed ugualmente a tutti, e perché la carità ha il potere mirabile di far diventare comune ciò che è proprio di ognuno:... per effetto di questa carità ciò che ognuno possiede diventa comune a tutti. In questo modo, infatti, quando uno ama, possiede nell'altro ciò che egli non ha 118. E questo esattamente è l'amore sociale, dove non si dà ombra di egoismo, perché nessuno cerca "quae sua sunt", dove non ha posto la superbia, l'avarizia, l'invidia, le divisioni, le contese, perché tutto è comune.
Da questa premessa nasce il metodo dell'amore sociale, che consiste nell'imitare in terra la "vita sociale" dei Santi, preferendo il comune al proprio bene. Il principio lo abbiamo enunciato sopra riferendoci alle Enarrationes in psalmos. Vogliamo ripeterlo qui con le parole della Regula. L'amore - dice la Scrittura - non va in cerca del proprio interesse e questo significa che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Perciò, quanto più vi prenderete cura delle cose della Comunità, tanto più vi accorgerete del vostro progresso nel cammino spirituale 118 bis. Parole che fissano un principio la cui importanza non può sfuggire a nessuno: il progresso nella perfezione è segnato dal progresso nell'amore sociale. È dunque questo il mezzo più semplice ed efficace per preparare il trionfo della carità. S. Agostino infatti continua: È così che nelle necessità transitorie della vita presente emergerà sempre la carità che è destinata a restare 119.
Anteporre il comune al proprio bene, affinché su tutte le cose di cui si serve la necessità transitoria sopravanzi la carità che eternamente dura. Per capire la portata di questo principio occorre ricordare che tra le necessità transitorie non ci sono soltanto i beni materiali, ma tutto ciò di cui ha bisogno la vita terrena in quanto tale: le differenze sociali, l'esercizio dell'autorità, le opere di misericordia, le attività esteriori, ecc. Queste necessità cesseranno quando, raggiunta la meta, regnerà in tutti la "unitas caritatis". Intanto, nel servircene, durante la fase temporale della città di Dio, eviteremo tanto meglio gl'inconvenienti e i mali che si attaccano facilmente a quest'uso, quanto più l'animo si dilati nell'amore del bene comune e ne faccia la regola della propria condotta. L' "uso" (uti), come si vede, riguarda quei beni che, potendo o dovendo essere propri, possono dare occasione ai vizi più gravi quando siano cercati con amore disordinato, cioè privato; il godimento invece o la fruizione (frui) riguarda i beni che son per natura comuni e, di conseguenza, motivo esclusivamente di virtù e oggetto di contemplazione.
La portata del principio agostiniano, che insegna, in definitiva, a cercare nel bene comune un correttivo ai pericoli del privato, è dunque vastissima. Non c'è bisogno di dire, per esempio, che l'unione e la concordia, e quindi la prosperità, d'una qualunque associazione crescerà a misura che i membri, dimenticando i propri interessi, perseguiranno, nei pensieri e nell'azione, il bene comune. Gli antichi romani ce ne diedero uno splendido esempio: rinunciarono ai piaceri, s'imposero sacrifici, vollero essere poveri pur di vedere ricca e forte la repubblica: I Romani hanno trascurato i loro interessi privati per quelli pubblici, cioè per lo Stato e il suo erario.... Premio di queste virtù civiche fu la gloria dell'impero. S. Agostino ricorda quelle virtù e questa gloria, e le propone come motivo di raffronto e di sprone ai cittadini della città di Dio, perché imparino di quanto amore sia degna la città celeste, se tanto fu amata la città terrena, molto più che in quella non c'è bisogno di ristrettezze personali per arricchire l'erario pubblico, poiché il "thesaurus communis" sarà per tutti la verità 119 bis.
Ma, a parte quest'aspetto collettivo, anche individualmente il principio si rivela fecondissimo. Si pensi all'esercizio dell'autorità: solo l'amore e il servizio del bene comune gli può togliere ogni asprezza ed ogni motivo di orgoglio, anzi ogni ingiustizia. Significative a questo proposito le parole di S. Agostino: nella casa del giusto che vive di fede, ancor pellegrino dalla celeste città, anche coloro che comandano servono coloro ai quali sembrano comandare. Infatti non comandano per la cupidigia di dominare, ma per il dovere di servire 120. Lo stesso vale per l'insegnamento. Se l'amore verso la verità non unisce il maestro e il discepolo, questo troverà nell'insegnamento un motivo di umiliazione, quello un motivo di orgoglio: se invece l'amore per la verità li unisce, l'insegnare e l'imparare saranno accettati come una necessità e usati in vista del godimento comune d'un bene comune 120 bis.
Potremmo moltiplicare gli esempi, ma preferiamo accennare ad alcuni vantaggi che ci sembrano insiti nel metodo dell'amore sociale.
* * *
a) Il metodo di cui parliamo importa in primo luogo lo svuotamento progressivo dell'egoismo. L'amore sociale lo colpisce alla radice. Se il peccato consiste nella conversione dal bene comune al bene privato, la virtù non può non fare, in senso contrario, lo stesso cammino. Se i vizi nascono dalla ricerca del bene proprio, la vittoria su di essi dovrà consistere nella ricerca del bene comune. Due conclusioni evidenti. "Al morbo della superbia e dell'avarizia, scrive a proposito S. Agostino, si oppone la carità, la quale non cerca cerca il proprio interesse (1 Cor 13,5), cioè non si compiace della propria eccellenza; a ragione perciò non si gonfia d'orgoglio 121. V'è pertanto nell'amore sociale l'umiltà, la carità, il disinteresse; in definitiva, v'è l'attuazione del programma di S. Paolo: non sibi vivant. Non vivere per sé: come i superbi, che si rallegrano del loro bene privato e si distaccano con vuoto orgoglio dal bene comune di tutti, ch'è Dio. Questo appunto deve evitare ogni cristiano che deve, al contrario, godere del vero bene a tutti comune piuttosto che cercare il bene privato, in modo che si adempia quanto dice l'Apostolo: "coloro che vivono, non vivano più per sé, ma per Colui che è morto per loro" 121 bis. In altre parole: cercare, amare, godere del bene comune è il segreto per svuotarsi dal perverso "amor sui" e riempirsi di Dio. Chi intende preparare una dimora al Signore deve godere non di ciò che è privato ma di ciò che è comune. Coloro invece - e sono molti - che ricusano di diventare luogo sacro per il Signore cercano avidamente e sono attaccati ai loro beni privati, godono del potere che hanno e desiderano gli interessi personali, e così non fanno posto in loro al Signore 122 .
Ecco, infine, come S. Agostino descrive l'opposizione dei due amori: uno, l'amore sociale, provvede all'utilità comune in vista della società celeste, l'altro, l'amore privato, per l'arroganza del dominio fa servire a sé anche il bene comune; uno è suddito a Dio, l'altro emulo di Dio; uno tranquillo, l'altro turbolento; uno pacifico, l'altro sedizioso; uno preferisce la verità alle lodi degli adulatori, l'altro preferisce in qualunque modo le lodi alla verità; uno amichevole, l'altro invidioso; uno che vuole al prossimo il bene che vuole a sé, l'altro che vuole assoggettare a sé il prossimo; uno che regge il prossimo per l'utilità del prossimo, l'altro che lo regge per la sua utilità 123 .
b) In secondo luogo, l'amore sociale costituisce il genuino amore di sé e del prossimo. Insegna anzitutto ad amare il prossimo non per le relazioni particolari che ha con noi, ma per quelle comuni che ha con tutti. Le relazioni particolari son proprie del tempo, e quindi transitorie; quelle comuni, fondate sulla natura dell'uomo, sono eterne. Amare i nostri simili non perché sono nostri parenti, amici, connazionali, ma prevalentemente perché sono uomini, destinati insieme a noi alla città celeste.
Né sembri disumano questo, osserva S. Agostino. Sarebbe anzi disumano non amare nell'uomo ciò per cui è uomo, ed amare ciò per cui è padre, madre, fratello, parente, amico; in questo caso non ameremmo quello che appartiene a Dio, ma soltanto quello che appartiene a noi; non ciò che è universale ed eterno, ma ciò che è particolare e perituro 124. Del resto non ci prescrive il Vangelo di odiare il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle se vogliamo essere discepoli di Gesù Cristo?
Odiare, spiega il Vescovo d'Ippona, vuol dire non amar i parenti con amore privato, cioè per i vincoli carnali che ci legano a loro, come fa il mondo; bensì amarli con amore sociale, vale a dire per i vincoli universali ed immortali che fanno di tutti una società destinata a quel regno... perché in esso nessuno dice: Padre mio, ma tutti all'unico Dio: Padre nostro; non: Madre mia, ma tutti alla Gerusalemme del regno: Madre nostra; né: Fratello mio, ma tutti per tutti: Fratello nostro 125.
Chi ha scritto queste parole amò teneramente sua madre e ne scrisse con accenti commossi come nessun figlio seppe fare prima o dopo di lui; ebbe molti amici, e li amò e ne fu riamato fino alla tenerezza. Non vuol dunque negare i sentimenti di amicizia, per cui ebbe il culto, né gli affetti umani, che gli furono sì cari; ma purificarli dalle scorie caduche, inserirli nell'amore divino che si deve all'uomo come tale, ancorarli alla Città che eternamente dura, dove, passate le necessità transitorie, saranno tutti "sicut angeli Dei" 125 bis.
Si osservi inoltre che lo stesso Vangelo che ci prescrive di odiare il padre e la madre, ci comanda di amare i nemici. Antinomia solo apparente, che si risolve nell'amore sociale. In realtà, odiare il padre significa amarlo come uomo e non come padre; amare il nemico significa amarlo non come nemico, ma come uomo. I due precetti s'incontrano nel motivo comune dell'amore del prossimo, che è l'uomo destinato al regno di Dio. Nello stesso motivo s'incontra l'amore che dobbiamo a noi stessi. Anche della nostra anima ci è stato detto che dobbiamo odiarla, il che vuol dire che dobbiamo fuggire in noi l'amore privato, che è temporale - odiare l'affetto egoistico che è solo passeggero - e amare, invece, ciò che forma una sola famiglia spirituale, di cui è stato detto: (I primi Cristiani) formavano un cuor solo e un'anima sola protesi verso Dio (At 4, 32), che è eterna 126 . Nel bene comune, che costituisce essenzialmente la vita sociale dei santi, si ritrova e si fonde il triplice oggetto dell'amore: Dio, noi stessi, il prossimo. Questi tre oggetti, presi separatamente, nascondono pericoli. L'amore di Dio, separato dall'amore del prossimo, diventa individualismo, che è stato rimproverato, a torto, alla fede cattolica; l'amore del prossimo, separato dall'amore di Dio, degenera, nella migliore delle ipotesi, in naturalismo; l'amore di sé, disgiunto dall'amore di Dio e del prossimo, è solo egoismo. L'amore sociale, che ha per oggetto Dio e i doni divini partecipati o partecipabili dalle creature intelligenti, cioè ha per oggetto la "societas" divina voluta da Dio, supera questi pericoli e crea l'"unitas caritatis", che è la perfezione. La profonda interpretazione che S. Agostino ci ha dato del precetto cristiano della carità e del modo di farlo trionfare si delinea con tutta chiarezza.
c) Questa osservazione ci porta a dar rilievo a un altro aspetto dell'amore sociale che andiamo illustrando, ed è questo: l'amore sociale educa l'anima a un profondo spiritualismo. S. Agostino non dimentica mai di aver molto sofferto per evadere dal materialismo manicheo. Non lo dimentica in filosofia e in teologia, non lo dimentica nella dottrina spirituale. Cerca la realtà soprasensibile, di cui è invaghito, non solo per trovare una spiegazione all'uomo e al mondo, non solo per soddisfare la sete dell'eterno che gli brucia in cuore; ma anche, e non secondariamente, per trovare un fondamento stabile e sicuro all'amicizia, di cui sente il bisogno per la gioia di dare e per quella di ricevere.
Molte e mirabili pagine ha scritto S. Agostino sull'amicizia, che qui non possiamo riferire 127. Bastino alcune indicazioni che ci permettano d'intuire la concatenazione dei pensieri. L'amicizia si fonda sull'amore d'un bene comune. Se il bene comune non è essenzialmente sociale, cioè se, escluso il mio e il tuo, non sia contemporaneamente ed egualmente, di diritto e di fatto, di ognuno e di tutti, l'amicizia non è sicura; se il bene comune non è tale che non possa venir tolto agli amanti, l'amicizia non è stabile, e il timore di perdere ciò che si ama, turba la gioia dell'amore 128 . Or questo bene comune, per sua natura sociale, che non può dar luogo a dissensi perché indivisibile, che non può dar occasione a superbia, invidia o avarizia, perché non diventa mai un bene privato, che non può venir tolto agli amanti perché eterno, è necessariamente un bene di ordine spirituale, come la verità, la sapienza, la giustizia, l'amore.
Pertanto l'amore sociale crea in chi lo segue un senso vigile e profondo per questi beni e una spinta potente verso di essi. S. Agostino ne parla con appassionata eloquenza. Fin da quando scrive i Soliloqui indica la sapienza come il vincolo comune dell'amicizia. Quale misura, egli esclama, può avere l'amore per la bellezza della sapienza, quando in essa non invidio gli altri, ne cerco molti e molti che la desiderino, la bramino, la posseggano, ne godano con me, sicuro che tanto più mi saranno amici, quanto più l'amata sarà comune?(tanto mihi amiciores futuri, quanto erit nobis amata communior?) 129. E vale la pena di leggere un passo del De libero arbitrio: Abbiamo dunque (nella sapienza) ciò di cui possiamo tutti ugualmente e indistintamente fruire: e in essa non vi è nessuna angustia né difetto. I suoi amanti non li rende invidiosi fra loro, ma a tutti ed a ciascuno essa castamente si dona. Nessuno dice all'altro: indietreggia perché possa avanzare io o togli la mano perché possa abbracciarla anch'io. Tutti l'avvicinano, e tutti ugualmente la toccano. Il suo cibo non si divide in parti, e nessuno può bere di essa quello che non possa bere anch'io. E nella sua comunione non puoi mutare qualcosa in tuo bene privato - in privatum tuum - ma quello che tu prendi di essa resta integro anche a me. Quello che t'ispira, non aspetto che tu lo renda per poter essere ispirato anch'io, poiché giammai qualcosa della sapienza diventa proprio di uno o di alcuni, ma è comune tutta a tutti insieme: simul omnibus tota est communis" 130 .
In tal modo la socialità, di cui parliamo, s'incontra con la interiorità di cui abbiamo parlato, per richiamarci dal sensibile allo spirituale e creare in noi una spinta potente verso quei beni che si posseggono per ciò stesso che si conoscono e si amano.
Da questa spinta nasce una preziosa disposizione interiore, quella di superare, per amore di questi beni, le distanze, le divisioni, i contrasti, di cui la Città di Dio nel suo terreno pellegrinaggio conserva, a causa della "transitura necessitas", tanti motivi 130 bis. Questa disposizione, ognun lo vede, è sorgente di unione, di concordia, di collaborazione e di pace, che sono i frutti migliori della carità.
d) Bisogna però tener presente il genuino universalismo che è insito nell'amore sociale. E questo vuol essere l'ultimo aspetto che desideriamo mettere in luce. Dobbiamo infatti notare che può essere amore privato - con tutte le conseguenze che questo amore comporta - anche l'amore di un bene comune, quando questo bene sia comune a più, e forse a molti, ma non a tutti. L'amore sociale, quindi, è contrario non solo ad ogni egoismo, ma anche a quell'affetto disordinato verso un bene collettivo che potremmo chiamare "nosismo". Il "noi" non impedisce meno dell'"io" l'espansione e il regno della carità, quando quel "noi" comprende la famiglia, il paese, la nazione, la stirpe o una qualunque associazione, anche religiosa, ma non abbraccia la Chiesa, non abbraccia la Città di Dio, anzi si pone in opposizione ad essa. Poco importa aver superato l'egoismo individuale, se l'egoismo risorge sotto forma familiare, nazionale, razziale, o, in qualunque modo, sotto forma di "nosismo". Con ciò risorgono le divisioni, risorge l'amore privato, con il seguito di vizi e di mali di cui è sorgente.
Si pensi per un istante alla natura dell'amore. Evidentemente l'amore unisce; ma appunto perché unisce, divide: unisce da un bene e divide da un altro. Unica condizione perché l'amore unisca senza dividere è questa: che il bene amato sia universale, di fatto o potenzialmente di tutti. Le divisioni e i contrasti tra individui, famiglie, città, nazioni o, in genere, tra un raggruppamento e un altro di uomini nascono dunque dall'amore; ma, per fortuna, si risolvono anche nell'amore: nascono dall'amore particolaristico, e quindi privato, e si risolvono nell'amore che, allargandosi come l'onda del mare, supera i beni limitati, che creano divisioni, fino a toccare i limiti stessi della Città di Dio, cioè l'universale e l'eterno, dove ogni divisione si appiana, perché nessuno più cerca, né può cercare, "quae sua sunt".
La spiritualità agostiniana è dunque la spiritualità della Città di Dio, nel cui amore trova posto, e rientra nell'ordine, ogni altro amore. Educare l'animo a questo vigile senso di universalismo, che non si perde nel vago, che non si rifugia nell'astratto, ma si concretizza nella Chiesa, e l'abbraccia e vi s'inserisce, non è un piccolo merito dell'amore sociale.
A questo punto dovremmo parlare della lotta sostenuta da S. Agostino contro il particolarismo donatista, del suo concetto intorno all'unità cattolica della Chiesa, della sua dottrina del corpo mistico: tutti temi che illuminano e ricevono luce a vicenda dal nostro argomento. Sarebbe un vero godimento spirituale toccarli, specialmente l'ultimo, dove il pensiero agostiniano raggiunge arditezze e mete vertiginose. Ma questi temi ci porterebbero troppo lontano 131. Basti dire che il Vescovo di Ippona vi conferma l'interpretazione sociale del comandamento della carità, basata sul duplice elemento di universalità e di unità. Dio è l'unità. L'uomo creato da Dio aveva, mediante la carità, l'unità perfetta con Dio e con il suo simile. Non v'erano fratture, non v'erano divisioni. Il peccato apportò questi mali opponendo l'uomo a Dio, a se stesso, al prossimo. Gesù è venuto per ridonarci l'unità perduta; e ce la ridona in sé, comunicandoci l'unità nella sua persona: divenuti, attraverso la grazia e la carità, membri vivi del suo corpo, in modo misterioso ma reale, noi siamo Lui e Lui è noi: poiché anch'essi sono io... - sono parole che S. Agostino mette in bocca di Gesù 132 - perché anche noi siamo lui 133. Non è più possibile dividere e separare.
Non potest separari dilectio. Chi ama Gesù ama il Padre, ama la Chiesa, ama gli uomini. Questi oggetti del nostro amore sono inseparabili; qualunque se ne scelga, gli altri seguono necessariamente. Estendi dunque la tua carità per tutto il mondo se vuoi amare il Cristo, esclama S. Agostino. "Extende caritatem per totum orbem si vis Christum amare, quia membra Christi per orbem iacent. Se ami una sola parte, sei diviso; se sei diviso, non sei nel corpo; se non sei nel corpo, non sei sotto il capo 133 bis. La Città di Dio, la Chiesa, il corpo mistico di Cristo, la vita sociale dei santi - i diversi concetti si richiamano a vicenda - costituiscono il "Christus totus", per cui nell'unità dell'amore sociale non v'è che il Cristo, il quale ama se stesso: e sarà un solo Cristo, il quale ama se stesso 134. L'opposizione tra l'amore privato e l'amore sociale s'identifica con quella posta da S. Paolo tra chi cerca "quae sua sunt" e chi cerca "quae sunt Iesu Christi".
Ma non vorremmo porre termine a queste brevi considerazioni senza prevenire una difficoltà. Qualcuno potrebbe pensare che l'insistenza sull'amore sociale deprima la nostra personalità, piegandola a un conformismo senza vigore e livellandola nella massa comune. Dobbiamo dire che è vero precisamente il contrario. S. Agostino propone l'amore sociale come sorgente di libertà e di autonomia, come sorgente - la parola è sua - d'invitto volere. Bisognerebbe leggere a questo proposito alcune pagine del De vera religione, meditate e scritte nella solitudine di Tagaste. Eccone il contenuto essenziale.
L'uomo non è libero se non ama il bene. Ma anche nell'amore del bene non sarà libero, se è superbo di ciò che ha, se è invidioso di ciò che non ha, se teme di perdere ciò che possiede. Tre condizioni necessarie alla libertà, cui soddisfa pienamente l'amore sociale. In effetti, esso ha per oggetto un bene che è inammissibile contro volere, perché spirituale, che non dà luogo a superbia o invidia, perché comune. Chi ama dunque la libertà, brami di essere libero dall'amore delle cose mutabili.
Lo stesso vale della volontà di essere invitti, che è un'esigenza della nostra natura fatta ad immagine di Dio. Invitto non è se non colui al quale non può essere tolto ciò che ama. Ma nulla si può togliere a chi ama Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stesso, perché in sé e nel prossimo non ama, se ha capito la forza del precetto cristiano, ciò che è particolare o transitorio, ma ciò che permane in eterno: la natura umana destinata al regno di Dio, la quale non può venire mai meno a chi l'ama, perché è posseduta per identità da quello stesso che l'ama 135.
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Riassumendo: se è vero che S. Agostino mette al centro della sua concezione spirituale la carità e che il movimento del suo spirito va da questo centro alla periferia e non dalla periferia al centro, è vero anche che quanto vi è di specifico nella sua concezione è il modo con cui egli prepara il trionfo della carità. Se le pagine precedenti valgono qualcosa, hanno dimostrato proprio questo. Il trionfo della carità si compie attraverso la scoperta sempre più chiara della corrente d'amore che muove il nostro essere verso l'Eterno, attraverso la persuasione sempre più profonda dell'impotenza di quest'amore a raggiungere naturalmente la meta cui aspira, attraverso l'adesione sempre più completa al bene comune, il bene sociale.
L'interiorità diviene soprannaturalità e la soprannaturalità si dilata nella socialità universale della Città di Dio. Tre prerogative fondamentali dell'agostinismo nelle quali corre una mirabile causalità circolare: l'interiorità agostiniana non è autentica se non è soprannaturale e sociale, come la socialità non è vera se non è interiore e soprannaturale. Tre prerogative che potremmo anche chiamare trinitaria, cristologica, ecclesiologica.
Dalla prima infatti - interiorità - nasce un perenne richiamo ai beni dello spirito, una spiccata tendenza alla contemplazione, una profonda vita trinitaria perché della SS. Trinità l'uomo, sotto la luce della fede, scopre in se stesso l'immagine; dalla seconda - soprannaturalità - proviene un continuo sforzo di superamento, trascende teipsum, un'appassionata invocazione della grazia medicinale del Cristo, un umile e fiducioso abbandono in Dio; dalla terza - socialità - un ricco fondo di bontà e di simpatia che dona con gioia e riceve con riconoscenza, che rende l'uomo incapace di pensare a sé solo, ma lo spinge a trovare il proprio perfezionamento nel bene e nella felicità altrui, che lo porta ad amare la Chiesa, ad inserirsi nella sua compagine, a procurarne la gloria con ardore e sacrificio.
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Al termine di questo schizzo cadrebbe opportuno un raffronto tra i caratteri della spiritualità agostiniana e gli aspetti salienti del pensiero contemporaneo, dove si parla molto di socialità, ma d'una socialità cui manca spesso l'interiorità, o si parla d'interiorità, ma senza soprannaturalità, senza Gesù Cristo, senza la grazia, o s'insiste nella soprannaturalità, ma si nega addirittura l'interiorità e la socialità; per cui ne nascono gravi errori e più gravi squilibri. Agli uni e agli altri la visione spirituale di S. Agostino, che raccoglie in sintesi i tre aspetti diversi, potrebbe offrire un efficace rimedio. Il raffronto, come si vede, è seducente, ma troppo impegnativo per poterlo abbozzare in poche pagine. Tanto più che abbiamo da svolgere ancora la seconda parte del nostro argomento che riguarda, come si ricorderà, l'ideale monastico.
A questo proposito possiamo essere molto brevi: altri ne parleranno in questa sede, e noi stessi ne abbiamo parlato altrove 136.
L'ideale monastico di S. Agostino s'illumina e si muove tra un ricordo ed un'attesa: il ricordo della prima comunità cristiana e l'attesa della "vita sociale" dei santi nel cielo. Da quel ricordo gli deriva una vena perenne di freschezza, da quest'attesa una nota profonda di umanità e di soprannaturalità. La vita monastica è per eccellenza nella chiesa la "vita socialis", condotta sull'esempio dei primi cristiani, dei quali dicono gli Atti degli Apostoli che era loro ogni cosa comune, e in vista della Città di Dio, che è la società ordinata e concorde di coloro che posseggono Dio e godono gli uni degli altri in Dio. Così precisamente la chiama S. Agostino parlando dei chierici che avevano accettato la vita comune con lui: quelli che hanno deciso, per grazia di Dio, di fare vita in comune.. 137.
Fondamento di essa, la povertà individuale assoluta. Come per i primi cristiani. Su questo argomento S. Agostino ci ha lasciato esempi di rara severità e fermezza. Rinunciare al "suo" in ciò che riguarda i beni materiali, è per lui una preziosa disposizione per rinunciare al "suo" in ciò che riguarda quei fallaci beni morali che la superbia va cercando con tanta avidità. Dice al suo popolo: Priviamoci dunque, fratelli, d'ogni proprietà privata o, se non possiamo abbandonare la cosa in se stessa, eliminiamo l'amore per essa. Così prepariamo una dimora per il Signore... Quando si possiede qualcosa in proprietà privata, si diventa superbi e, per la stessa ragione, ciascuno, pur essendo uomo e quindi carne, tende a dilatarsi a danno del suo simile 138 . Chi si sente povero di Dio - pauper Dei - si va svuotando a poco a poco dell'amore privato e apre il cuore al regno della carità, che è l'unico regno che gli appartiene nel quale, possedendo Dio, possiede se stesso e il prossimo.
Infatti sul saldo fondamento della povertà S. Agostino erige l'edificio della vita comune, che ha per centro la carità, il "cor unum et anima una in Deo". È questo lo scopo principale per cui si entra nel monastero. Il motivo essenziale del vostro vivere insieme è di abitare nella stessa casa nel comune progetto di cercare instancabilmente Dio, avendo tutti un cuore solo e un'anima sola 139.
L'unione operata dall'amore dev'essere tale da fare di tutti un unico tempio di Dio - Erano certamente diventati tempio di Dio, e non lo erano diventati solo come singoli ma tutt'insieme erano diventati tempio di Dio - 140, da fare di tutti un'anima unica, l'anima del Cristo. (I primi Cristiani) formavano un cuor solo e un'anima sola protesi verso Dio (At 4,32). La tua anima così non è più tua, ma di tutti i fratelli e anche le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non formano più se non un'anima sola, l'unica anima di Cristo 141.
Su questa base S. Agostino poteva ben mitigare, come fece, le asprezze esteriori, allora molto dure, della vita monastica insistendo al contrario sul raccoglimento interiore, sull'ascetismo della carità, sul metodo dell'amore sociale. Il primo punto è il tema centrale della formazione che impartiva ai primi discepoli, quando insegnava loro con assidue cure a vivere gioiosamente in se stessi -Tu puoi dimorare piacevolmente anche in compagnia del tuo spirito 142; il secondo è diffuso in tutti gli scritti monastici, dove dimostra come nell'amore - amore umile, paziente, benevolo, premuroso, pronto all'abnegazione e al perdono - si risolvano le differenze e le difficoltà di cui è cosparsa la vita comune; il terzo, che riassume gli altri due, è espresso nella Regula ad servos Dei con le parole che abbiamo riportato.
La stessa Regula riassume nel penultimo capoverso i motivi più profondi della spiritualità cui la vita monastica s'ispira. Il Santo vi supplica il Signore che conceda ai religiosi di osservare le cose prescritte con amore, come invaghiti della spirituale bellezza e come spiranti dalla buona condotta il buon odore di Gesù Cristo, non come schiavi sotto la legge, ma come figli sotto la grazia.
Non è difficile vedere in queste parole, densissime di significato, il motivo sociale - ut observetis haec omnia cum dilectione -, i1 motivo della interiorità - tanquam spiritualis pulchritudinis amatores -, il motivo cristologico - bono Christi odore... fragrantes - e, infine, il grande motivo della libertà cristiana - sicut liberi sub gratia constituti 143.
Il motivo sociale-cristologico è ricordato pure con animo commosso nei due Sermones sulla vita comune dei chierici e nel De opere monachorum. Nei Sermones si dice che possiede Dio chi, rinunciando al suo, vuol restare con Agostino nel monastero - habet Deum qui mecum manere vult. Coloro cui non bastano Dio e la sua Chiesa se ne vadano pure, il loro posto è altrove 144 .
Dal De opere monachorum citiamo un solo passo, mirabile per la visione universale e per il sentimento profondo del corpo mistico di Cristo. Non bisogna star lì a guardare, scrive, in quali monasteri o in qual luogo il religioso ha distribuito ai fratelli bisognosi ciò che aveva. I cristiani non formano che una sola repubblica: Omnium christianorum una respublica est. Di conseguenza, qualunque sia il luogo dove qualcuno ha dato ai cristiani il necessario, quando egli a sua volta riceve ciò di cui ha bisogno, non lo riceve se non dai beni del Cristo. Chi infatti se non il Cristo ricevette i beni ch'egli diede, dovunque li diede, ai cristiani?" 145.
Rapidi accenni, abbiamo detto; ma sufficienti, crediamo, per farci intuire la modernità della concezione monastica agostiniana e la sua rispondenza al principio animatore della dottrina spirituale. Questa rispondenza, intima e perfetta, non deve recar meraviglia. Chi ha un poco di dimestichezza con le opere agostiniane sa che l'ideale monastico è per S. Agostino la pratica consacrazione delle sue convinzioni filosofico-religiose e la conclusione spontanea d'un profondo anelito dello spirito, portato per istinto verso l'interiorità e la socialità. La spiritualità dell'universale e dell'eterno che il Vescovo d'Ippona illustrò con vena inesauribile trova nei suoi monasteri, quali egli li concepì e li volle, l'espressione più efficace e più alta.