- Verso la riabilitazione del pelagianesimo?, Augustinianum 3 (1963), pp. 428-516.

 

Verso la riabilitazione del pelagianesimo?

Il pelagianesimo che turbò la Chiesa in un momento drammatico di trasformazione del mondo - all'inizio del secolo Vº - non ha mai cessato d'interessare la teologia e la storia.

La ragione di questo fatto va ricercata, ci pare, su due direzioni: la natura stessa del pelagianesimo, che s'impernia sul tema delicatissimo della libertà ed entra nel vivo dei problemi che toccano la nostra salvezza, e i movimenti dottrinali che sono partiti da posizioni antipelagiane, risolvendo, però, quei problemi in contrasto con la fede cattolica.

Da qui due atteggiamenti diversi di fronte al pelagianesimo: uno di netta opposizione e un altro di attenta vigilanza verso le posizioni antipelagiane non più conformi all'insegnamento della Chiesa.

È facile comprendere che questo secondo atteggiamento, che è proprio, si può dire, della teologia cattolica dopo il concilio di Trento, mette volentieri in rilievo quegli aspetti dottrinali che costituivano la parte di verità conservata dal pelagianesimo e la sua forza, come ad esempio la libertà, la necessità dell'impegno morale, la responsabilità nel peccato, la santità della legge e la possibilità di osservarla. Si tratta, in verità, di un rovesciamento di fronte. Ciò nonostante i gravi errori del pelagianesimo sono stati sempre apertamente riconosciuti, sia da parte cattolica che da parte protestante 1.

Oggi, invece, non mancano studiosi - cattolici e non cattolici - i quali, occupandosi di Pelagio e della sua dottrina, si muovono su direzioni diverse. Mettono volentieri in luce l'apporto del monaco bretone per la riforma dei costumi, ne rilevano la vigoria e la coerenza della dottrina, ne lodano la moderazione dell'atteggiamento e la larghezza di vedute; lasciando intendere, o dicendo apertamente, che, nonostante alcuni aspetti meno chiari, il giudizio sulla persona e sulla dottrina di Pelagio dev'essere positivo.

Alcuni studi moderni intorno a Pelagio.

L'opera più importante a questo proposito è quella di Giorgio De Plinval, Pelage, ses écrits, sa vie, sa réforme, Lousanne 1943, che ha rinnovato in questi ultimi anni gli studi intorno a Pelagio. L'autore, dopo un esame critico sugli scritti, nei quali, confermando sue precedenti ricerche, rivendica al monaco bretone la cospicua eredità letteraria di una ventina di pezzi che andavano sotto il nome di altri, studia la persona, la cultura, l'ambiente, l'insegnamento, l'opera di Pelagio, le lotte che il suo movimento suscitò, la repressione e, in fine, la forza e le debolezze del pelagianesimo.

Nel corso dell'ampio e ben meditato lavoro, il De Plinval non nasconde la simpatia per Pelagio, della cui dottrina dà, concludendo, un giudizio molto lusinghiero. Bisogna distinguere, egli dice, tra Pelagio e suoi discepoli; questi, difendendo con zelo accanito la dottrina del maestro, l'hanno sfigurata privandola della sua serenità e della sua grandezza iniziale.

La dottrina di Pelagio ci si offre con un aspetto di unità, di coesione e di semplicità. Il suo principio capitale è la difesa della libertà, da cui dipende la nostra dignità, il nostro merito. Per difendere il principio della libertà lascia nell'ombra fino alla dimenticanza completa, che equivale - è il De Plinval che lo nota - a una negazione virtuale, quei dati del domma cristiano che sembrano alterarla o limitarla.

Dalla stessa difesa della libertà dipende l'impeccabilità, su cui Pelagio tanto insiste, e la convinzione che la grazia divina ci viene accordata secondo i nostri meriti.

Il monaco Pelagio, dunque, è anzitutto e soprattutto un moralista, che vuol togliere ai cattivi ogni scusa e vuol sospingere i buoni verso la più alta perfezione. Nella sua dottrina, più che eresie, vi sono germi di eresie, che i suoi amici non scoprivano e di cui egli stesso non aveva coscienza, ma che i suoi rivali ben presto denunciarono. Il De Plinval non si dilunga sul peccato originale perché era allora - egli dice - una questione libera o almeno indecisa, né sull'impeccabilità, su cui non si sarebbe impegnato neppure S. Agostino 2. In quanto alla preghiera - continua il De Plinval - se non c'è in Pelagio una preghiera che implori il soccorso divino - di cui non abbiamo bisogno avendo noi ricevuto il dono della libertà - c'è la preghiera di lode e di riconoscenza. Se dunque si parla di naturalismo pelagiano, bisogna dire che si tratti di un naturalismo religioso 3.

Di contro a Pelagio S. Agostino. Sul vescovo d'Ippona il giudizio del De Plinval non è senza riserve. S. Agostino, egli dice, non nega la libertà; ma questa libertà non esiste e, in ogni caso, non funziona se non quando è innestata sulla grazia. Il punto, poi, dove si manifesta maggiormente, a favore di Pelagio, l'opposizione tra i due sistemi è quello che riguarda l'universalismo della salvezza da una parte e il particolarismo dall'altra: l'uno difeso dal monaco bretone, il quale tende ad allargare la religione fino ai confini dell'umanità, l'altro rappresentato dal vescovo d'Ippona, che restringe crudelmente la porzione dei predestinati e ci offre una nozione dura ed angusta della Chiesa. Se S. Agostino, continua il De Plinval, avesse concepito la grazia come una forza talmente larga e misericordiosa da essere realmente estesa a tutta l'umanità, non sarebbe esistita più, tra lui e Pelagio, che una differenza di apprezzamento, una differenza ancora molto importante, ma che, in fondo, avrebbe portato alla stessa conclusione, in quanto uno - Pelagio - accordava di più alla grazia del Creatore, l'altro - S. Agostino - di più alla grazia del Redentore 4. "La morale pelagiana si pone e si dispiega in margine alla grazia, per lo meno alla grazia quale la concepisce Agostino" 5.

C'è dunque da rammaricarsi, conclude il De Plinval, della disfatta di Pelagio. Egli aveva conosciuto un periodo di splendore, aveva brillato alla pari con i più grandi dottori del suo tempo, con S. Agostino, con S. Girolamo; ma poi il suo splendore fu spento. Pelagio restò come un sole morto: magna stella de coelo cecidit. Questa disfatta però fu dovuta pagare a caro prezzo. Il rimprovero di Giuliano che la tradizione dei Padri, l'insegnamento di S. Ambrogio e di S. Giovanni Crisostomo veniva sacrificato al disputatore punico non è senza fondamento. Nella vittoria di S. Agostino c'era in germe il luteranesimo e il giansenismo 6.

Dopo il De Plinval, che ha rinnovato, come abbiam detto, gli studi intorno a Pelagio, altri hanno scritto sull'argomento. Ricorderemo il Ferguson, il Bohlin e Serafino Prete.

Il Ferguson, Pelagius, Cambridge 1956, che per alcune parti del suo lavoro dipende molto dal De Plinval 7, descritte sommariamente le condizioni dello Stato e della Chiesa, particolarmente in Inghilterra, al tempo di Pelagio, rifà la storia del pelagianesimo fino alla condanna, dedica un attento studio alla teologia di Pelagio nel commento a S. Paolo, ne mette in rilievo il contributo nei riguardi del pensiero cristiano e ne sottolinea, in fine, il valore teologico e la sorte.

L'autore si fa un'alta idea sia della persona che della dottrina del suo personaggio. Pelagio si può dire non impropriamente l'araldo dell'amore 8. Egli fu appassionatamente ansioso di restare membro leale della Chiesa, volle lavorare per la perfezione cristiana al di dentro e non al di fuori della Chiesa, protestò ad amici di S. Agostino di credere nella grazia divina operante in ogni nostra azione, desiderò, ma invano, una riconciliazione col vescovo d'Ippona. Di fronte alle calunnie restò leale verso la verità che aveva conosciuto. Sparì dalla storia con l'amore sulle labbra, circondato dalle ingiurie e dal disprezzo 9.

Non meno lusinghiero il giudizio che l'autore si forma sulla dottrina di Pelagio.

I punti che si possono criticare giustamente sono due: l'assenza d'una chiara dottrina sull'espiazione - la Croce, nota il Ferguson, non sta al centro del pensiero di Pelagio - e la mancanza d'una fede effettiva nello Spirito Santo. Ma questi lati negativi sono compensati dai molti lati positivi 10. Comunque non si può dire che Pelagio sia eretico. Se chiamiamo eretico Pelagio dobbiamo dire che non meno eretico è S Agostino. Infatti, se è eretico chi sottolinea una verità con esclusione di altre, S. Agostino non lo è meno di Pelagio, anzi lo è di più. Di Pelagio si può dire che non sia certo che la sua dottrina, almeno nella forma che prese in seguito alla controversia, sia inconciliabile con la fede cristiana o indefendibile in termini di Nuovo Testamento; ma non è affatto chiaro che possa dirsi lo stesso di S. Agostino 11.

Come si vede, dall'inevitabile confronto tra Pelagio e S. Agostino, è di nuovo S. Agostino che ne esce male. L'autore si dilunga su questo confronto: lo estende al peccato originale, alla grazia, al battesimo, alla morte, alla preghiera. Su tutti questi punti egli trova che la dottrina di Pelagio è più vicina alla verità di quella di S. Agostino. Ritiene, fra l'altro, che S. Agostino, sostenendo la trasmissione del peccato originale per, generazione, è tornato al manicheismo - l'accusa di Giuliano, per quanto S. Agostino se ne difenda, non è senza fondamento -, e mettendo l'accento sull'iniziativa divina con la dottrina della grazia - mentre Pelagio lo metteva sull'iniziativa umana - non ha lasciato nessun posto, almeno quando ha formulato la teoria della predestinazione, per la libertà umana 12.

Concludendo, l'autore sostiene che, quantunque ci siano stati agostiniani tra i Pontefici Romani, come Leone Magno e Gregorio Magno, pure non furono i cattolici, bensì gli eretici Lutero e Calvino, ad essere i veri eredi del vescovo d'Ippona 13.

Ad un anno di distanza del Ferguson, scrive sullo stesso argomento il Bohlin nel volume: Die Theologie des Pelagius und ihre Genesis, Uppsala 1957. Come appare dal titolo, il Bohlin non si occupa della storia del pelagianesimo, ma solo della teologia di Pelagio e della sua genesi. Per determinare il pensiero teologico del monaco bretone, l'autore si fonda essenzialmente sul commento alle epistole paoline, perché - osserva - il commento precede la controversia sulla grazia e ci dà perciò il primo orientamento della teologia pelagiana, che è nettamente antiariana e antimanichea. Il Bohlin si occupa di quest'ultimo aspetto.

In forza della sua concezione antimanichea, Pelagio insiste sulla bontà della natura umana, sulla libertà dell'uomo, sulla responsabilità nel peccato. In quanto alla grazia la concepisce sotto un triplice aspetto, cioè come creazione (Schöpfungsgnade), come rivelazione (Offenbarungsgnade), e come perdono delle colpe (Vergebungsgnade). S. Agostino in polemica con Pelagio ci avrebbe offerto della teologia di questi un quadro che è, in effetti, una caricatura (eine Karikatur, eine verzerrtesBild) 14.

Tra le fonti della teologia pelagiana l'autore indica S. Ilario, S. Ambrogio, Lattanzio in occidente, e Origene-Ruffino in oriente, per concludere, poi, che il grande merito di Pelagio - la sua opera magistrale - è stato di aver fuso insieme, in un sistema completo, la tradizione occidentale e quella orientale.

Ma la trovata più originale del Bohlin è la sua ipotesi di lavoro, che è questa: una delle fonti della dottrina pelagiana è proprio S. Agostino. Nel De libero arbitrio di S. Agostino Pelagio avrebbe trovato i principi essenziali e le formule della sua dottrina, anche se egli ha dato alla dialettica antimanichea una profondità ed una portata che non si riscontrano nel giovane Agostino. In definitiva, Pelagio sarebbe rimasto a quelle posizioni antimanichee dalle quali S. Agostino nel 396/97 s'era faticosamente staccato per raggiungere la sua nuova concezione intorno al peccato originale e alla grazia. Ciò spiegherebbe anche, osserva il Bohlin, la forza e la violenza dell'antipelagianesimo del vescovo d'Ippona 15.

Dopo il Bohlin si è occupato dell'argomento che c'interessa Serafino Prete nel volume: Pelagio e il pelagianesimo (Biblioteca di Scienze religiose, sez. X, Brescia 1961). L'autore si propone di riscoprire il volto di Pelagio asceta, quel volto che le aspre polemiche dottrinali avrebbero oscurato; rifà perciò più serenamente la storia del riformatore, ne studia la figura, la dottrina, gli scritti e mette in luce le vicende del pelagianesimo, la teologia della grazia e le reviviscenze pelagiane nella storia del cristianesimo 16.

Bisogna convenire con l'autore che il volto di Pelagio da lui presentatoci, è veramente nuovo, almeno in relazione a quello che offrivano gli studiosi prima del De Plinval, dal quale il Prete largamente dipende. Ci troviamo infatti di fronte ad un Pelagio, il quale, benché non abbia mai sconfessata, neppure dopo la condanna, la sua dottrina 17, non può dirsi nell'animo un eretico; un Pelagio che compì lo sforzo sincero di spiegare la dottrina cattolica della libertà e della grazia, anche se alcuni episodi lasciano perplessi intorno alla sua sincerità 18; che scrisse nella lettera a Demetriade, "una vera perla di trattatello da porre accanto ai migliori del genere che vanta la letteratura cristiana" 19; che, "esaltando il potere della libertà, non escluse l'aiuto divino" e la necessità della grazia 20.

La questione, nonostante il parere contrario dell'autore 21, si sposta inevitabilmente, come si vede, dalla persona alla dottrina di Pelagio, e precisamente alla dottrina dommatica. A proposito della quale ci sembra che l'autore abbia talmente sfocato i contorni da non vedersi più con chiarezza quale sia la linea divisoria tra la dottrina pelagiana e l'ortodossia cattolica. L'autore, per esempio, dice e ripete che Pelagio - e non diversamente Giuliano - ha difeso la libertà umana senza negare la grazia 22; scrive, inoltre, che "per un senso... di maggiore rispetto alla storia delle due teologie - ché tale volle dirsi e conservarsi anche quella di Pelagio - e volendo presentare le loro posizioni dottrinali..." si può dire che "i termini coi quali si espresse quel contrasto sono qui: il pelagianesimo accentuò e calcò il contributo umano alla salvezza e alla grazia, S. Agostino quello di Dio" 23.

Leggendo la ricostruzione che Serafino Prete ci offre della controversia pelagiana attraverso uno stile qua e là fluttuante e non sempre chiaro, si ha l'impressione - e vorremmo esser soli ad averla - di trovarsi non di fronte ad una lotta che schiera da una parte l'ortodossia cattolica e dall'altra l'eresia, ma di fronte ad una disputa tra teologi appartenenti a diverse scuole teologiche. Conferma questa impressione il capitolo dedicato alle reviviscenze pelagiane, dove l'autore trova modo di indicare reminiscenze e motivi pelagiani perfino nei tomisti al concilio di Trento 24 e nella spiritualità giansenista 25.

Pelagio dunque e il pelagianesimo escono in bellezza dall'opera del Prete. Non altrettanto può dirsi di S. Agostino e dell'agostinismo. L'autore, pur riconoscendo che il vescovo d'Ippona è rispettoso, in genere, dei suoi avversari 26, non crede di poter escludere che il sottile dottore della grazia... abbia talvolta maneggiato troppo liberamente i testi dei pelagiani 27. In quanto poi alla dottrina, se è vero che nella conclusione della sua opera il Prete scrive che S. Agostino, confutando Pelagio, non s'ingannò e fu fedele allo spirito stesso del cristianesimo 28, non è men vero che nel corso di essa parla di sottigliezze e logomachie a cui S. Agostino avrebbe fatto ricorso 29, di una terribile legge di solidarietà tra la colpa del primo uomo e quella dei suoi discendenti che il vescovo d'Ippona sottolineava 30, di tono acuto e sconcertante della tesi agostiniana sulla predestinazione 31, ecc.

In particolare dobbiamo rilevare con disappunto che il Prete riprende e fa sua l'interpretazione riproposta recentemente dal Gross, secondo cui S. Agostino avrebbe identificato il peccato originale e la concupiscenza e sarebbe responsabile, come vuole il Gross, di avere impedito all'etica cristiana di vedere nell'istinto sessuale l'espressione della forza creatrice e conservatrice di Dio 32. Passando sopra, poi, alla strana nozione della grazia che viene attribuita a S. Agostino 33, diremo che per spiegare la dottrina agostiniana sulla grazia e sul peccato originale l'autore propone questa singolare opinione "chiarificatrice": la psiche di S. Agostino fu scossa e attonita dal sempre risorgente fenomeno della concupiscenza, tanto che nella sua dottrina egli non riuscì a nascondere le preoccupazioni e il senso triste della sua anima ferita 34.

Problema.

Queste, in sintesi, le conclusioni a cui sono giunti gli autori che abbiamo preso in esame. Esse investono, come il lettore avrà potuto avvertire, non solo la questione storica - Pelagio e antipelagiani - ma anche, volere o no, la questione teologica, che riguarda le relazioni tra l'ortodossia cattolica e il pelagianesimo.

Non si tratta solo, dunque, di accettare o di respingere certi giudizi poco benevoli intorno a S. Agostino, ma si tratta inoltre di sapere se la controversia pelagiana si possa ridurre ad un contrasto tra correnti diverse di teologia nell'ambito della stessa fede o, tutt'al più, ad un contrasto tra reticenze da una parte ed esagerazioni dall'altra.

La prima questione è interessante, ma è secondaria. Siamo convinti che certi giudizi S. Agostino non li meriti, siamo convinti che gli scrittori, per lo meno gli scrittori cattolici, dovrebbero essere più giusti o, in ogni caso, più rispettosi verso un dottore che ha la statura e le benemerenze di S. Agostino; ma, in fondo, S. Agostino... non è che S. Agostino. Quel che importa veramente è la questione teologica, la quale ebbe bensì nel vescovo d'Ippona un valido difensore, ma non s'identifica con lui 35. La questione teologica va molto più in là: tocca il Vangelo e la Chiesa, tocca i tessuti della fede ed entra nel vivo della nostra vita. Vediamo dunque di dare una risposta a questa seconda questione, senza peraltro dimenticare la prima, la quale, anche se secondaria, non è priva d'importanza, a causa del compito affidato dalla Provvidenza al vescovo d'Ippona nella controversia pelagiana. In rapide linee illustreremo l'atteggiamento pastorale di S. Agostino verso i pelagiani, la conoscenza che ebbe della loro dottrina, i capisaldi della sua difesa, la validità di essa secondo il pensiero della Chiesa, quali di conseguenza i punti di contrasto tra la dottrina pelagiana e la ortodossia cattolica. Infine, per dissipare interpretazioni inesatte, anche se frequenti, della dottrina agostiniana, illustreremo alcune distinzioni più volte ripetute, ma per molti invano, da S. Agostino.

Premesse

Anzitutto, però, vorremmo fare alcune premesse per determinare l'oggetto della nostra esposizione.

1) Noi c'interessiamo non dell'uomo Pelagio, ma della sua dottrina. Se ricerche pazienti potranno dimostrare che Pelagio, come uomo, esce immune da colpa dalla controversia che porta il suo nome, tanto meglio. Bisognerà però, prima di giungere a tale conclusione, chiarire almeno due punti: il primo riguarda l'atteggiamento di Pelagio al sinodo di Diospolis, l'altro l'atteggiamento dello stesso dopo le decisioni di Roma.

Fu sincero Pelagio quando a Diospolis negò di avere insegnato le proposizioni che gli venivano contestate e anatematizzò chi le aveva insegnate? Accettò egli la condanna che la Chiesa pronunciò, sotto papa Zosimo, della sua dottrina?

S. Agostino, che aveva tra le mani gli atti del sinodo e le opere di Pelagio che noi più non abbiamo, risponde di no al primo quesito 36, e di no, qualche tempo dopo la condanna, al secondo 37. Gli studiosi moderni sono d'accordo con S. Agostino sul secondo quesito e non hanno ancora dimostrato il contrario riguardo al primo 38. Sulla persona di Pelagio restano dunque gravi ombre, e non si può dire che siano stati gli avversari a gettarvele.

2) Noi c'interessiamo non della dottrina morale o esegetica di Pelagio, ma della dottrina dommatica, in particolare della sua dottrina intorno al peccato originale e alla grazia.

Questo era, ed è tuttora, il punto della controversia, non quello. Le caratteristiche di un errore non stanno nella parte di verità che ha conservato, anzi questa parte di verità, su cui esso insiste, costituisce un titolo di merito; ma stanno, invece, nella misura della deviazione dal vero. Il pelagianesimo non è un errore perché difende la santità di Dio, la libertà dell'uomo, la necessità delle buone opere, la responsabilità del peccatore - tutte verità, queste, che fanno parte della rivelazione cristiana - ma è un errore perché ammette nell'uomo l'impeccantia, e nega il peccato originale, nega la necessità della grazia, nega la necessità della preghiera per implorare la grazia; negando, in tal modo, il concetto cristiano di Redenzione.

Dire che Pelagio fu un fustigatore di vizi, un animatore di asceti, uno scrittore che sa colorire in pagine brillanti la dottrina morale, è dire cose belle, ed anche vere, ma fuori questione. Già S. Agostino riconosceva a Pelagio questi meriti 39. Ma il santo Dottore aggiunge che egli aveva, bensì lo zelo per Iddio, ma non uno zelo illuminato, perché, affermando una verità, ne negava altre non meno importanti; negava ciò che ci rende propriamente cristiani, cioè, in concreto, misconosceva la giustizia di Dio e cercava di stabilire la propria 40, rendendo vana, così, la croce di Cristo 41.

Per la controversia pelagiana dunque, quel che interessa sapere non è ciò che Pelagio abbia insegnato di vero, ma quali furono i suoi errori circa la fede. Se poi la storia dei suoi errori avesse fatto dimenticare quella dei suoi meriti, si potrà ben rivendicarli questi meriti; ma non a rischio di cadere nell'inconveniente opposto, non a scapito della verità, che non può limitarsi, nel giudicare un autore, ad un aspetto solo della sua dottrina.

È vero che, specialmente dopo gli ultimi studi, siamo meglio informati sulle opere ascetico-morali ed esegetiche che sulle opere dommatiche di Pelagio, essendo, queste ultime, andate in gran parte perdute; ma questo fatto dovrebbe invitarci ad andare molto cauti nel voler ricostruire l'insegnamento dommatico del monaco bretone; qualora, s'intende, non si voglia far credito a chi ha avuto in mano quelle opere, le ha lette attentamente e vi ha trovato non solo reticenze ma aperti errori.

3) Crediamo, in fine, che non si debba insistere troppo nel distinguere Pelagio dai suoi discepoli 42.

Non già che i discepoli rappresentino sempre fedelmente il pensiero del maestro; anzi, spesso, sono proprio loro che ne compromettono la dottrina della quale non riescono a cogliere l'unità, la coesione, l'equilibrio. Ma nel caso di Pelagio ci pare che questa osservazione, in se giustissima, non porti a conclusioni molto utili.

La controversia pelagiana non scoppiò quando nella trincea erano restati solo i discepoli; scoppiò, è vero, su una serie di proposizioni che non erano - almeno letteralmente - di Pelagio; ma questi ebbe tutto il tempo di chiarire il suo pensiero, di precisare o di correggere quelle proposizioni o, per lo meno, di scindere la sua responsabilità da quella del discepolo. Se non lo fece, o non lo fece in maniera sufficiente, pur essendo tornato più volte, per iscritto, sotto l'incalzare della polemica, sull'argomento, dobbiamo dedurne che la sua dottrina non differisce molto da quella di Celestio. Potremo ammettere tra i due, tutt'al più, come già ammetteva S. Agostino 43, una differenza di tono, non già una differenza di sostanza.

Dire che Pelagio è portato a lasciare nell'ombra e a dimenticare totalmente quei dati del domma cristiano che possono alterare o limitare la libertà fondamentale dell'individuo, dire che nelle sue opere non ci sono eresie ma piuttosto germi di eresie 44, è dire una cosa che si potrebbe intendere se Pelagio avesse scritto solo prima che sorgesse la controversia; ma che, invece, si capisce male, a nostro parere, quando si pensi che Pelagio ha scritto anche dopo e ha scritto, tra l'altro, per essere stato chiamato in causa su dottrine apertamente erronee, tratte dall'insegnamento d'un suo discepolo. Del resto, come vedremo, S. Agostino ha dimostrato - e crediamo che non gli si possa dar torto - che su la tesi che potremmo chiamare celestiana, cioè la negazione del peccato originale, la dottrina del maestro non differisce da quella del discepolo.

Come si vede, noi parliamo di Celestio, e non pensiamo di attribuire a Pelagio le intemperanze polemiche, veramente eccessive, di un Giuliano, per quanto questi avesse tanta stima del maestro da chiamarlo santo 45.

Atteggiamento pastorale di S. Agostino verso i pelagiani.

Dopo queste brevi premesse, vediamo quale sia stato l'atteggiamento pastorale di S. Agostino verso i pelagiani.

Tutti sanno quale attività, davvero prodigiosa, dispiegò il vescovo d'Ippona nella controversia pelagiana; ma non tutti conoscono, forse, la bontà, la comprensione, la delicatezza che usò verso gli erranti. S. Agostino comprese subito che il pelagianesimo negava i fondamenti stessi della fede, negava un aspetto essenziale della pietà cristiana, negava la Redenzione; eppure fu buono, longanime, paziente, attento nell'evitare parole o gesti che potessero offendere o irritare. I suoi avversari, invece, passarono fin dal principio alla maniera forte e ai modi offensivi.

Possono darci un'idea del diverso stile usato ai due poli dello schieramento queste parole che costituiscono la perorazione del celebre discorso tenuto a Cartagine verso il 412. S. Agostino così conclude: "Se lo possiamo, cerchiamo dunque di ottenere dai nostri fratelli (i fratelli sono i pelagiani) che, oltre tutto, non ci chiamino eretici; quando noi, forse, se lo volessimo, potremmo chiamare eretici loro che discutono su certe cose; eppur non lo facciamo. La pia madre (la Chiesa) li sopporti misericordiosamente, ché hanno bisogno di essere sanati, li porti (sulle braccia), ché hanno bisogno di essere istruiti, affinché non debba piangerli morti. Vanno troppo lontano, veramente troppo; si può appena sopportare; sopportarlo ancora è segno di grande pazienza. Ma non abusino della pazienza della Chiesa; si correggano; è il loro bene. Usiamo il tono dell'esortazione come si conviene ad amici, non litighiamo come se fossimo tra nemici.

Dicono male di noi, lo sopportiamo; ma non dicano male della regola (di fede), non dicano male della verità, non contraddicano alla Chiesa santa che ogni giorno si affatica per la remissione del peccato originale nei bambini. Si tratta di una cosa ben fondata. Chi sbaglia discutendo di altre questioni non ancora diligentemente chiarite, non ancora pienamente determinate dall'autorità della Chiesa, è degno di essere sopportato: in simili questioni si deve sopportare l'errore; ma non si deve andare tanto avanti da sconvolgere il fondamento stesso della Chiesa. Non va: forse la nostra pazienza non è ancora degna di biasimo; ma dobbiamo anche temere di diventare colpevoli di negligenza. Fratelli carissimi, basta. Comportatevi con loro (con i pelagiani), quelli tra voi che li conoscono, comportatevi con loro con amicizia, con fraternità, con mitezza, con amore, con dolore.

La pietà metta in opera tutto ciò che è in suo potere, perché, poi, l'empietà non potrà, non dovrà essere amata" 46.

La citazione è un po' lunga; ma ne valeva la pena. Essa ci rivela, meglio d'ogni nostra parola, quale fosse l'animo del vescovo d'Ippona e quale il suo programma d'azione verso i pelagiani. Un misto di fermezza e di bontà, una lotta continua tra il desiderio della pazienza e il timore della negligenza; in ogni caso, distinzione netta tra l'errore e gli erranti.

Nella prima opera antipelagiana confutò l'errore senza nominare gli autori, sperando in tal modo di ottenerne più facilmente la correzione 47. Fece lo stesso confutando il De natura di Pelagio 48, opera inviatagli da due giovani monaci che si erano consacrati a Dio per esortazione di Pelagio stesso 49. Quando poi si decise a farne il nome, fu solo perché si convinse, dopo il sinodo di Diospolis, che era ormai tempo di aprir la piaga per poterla sanare 50.

Parlando in genere dei pelagiani, lo fa con espressioni di stima per la loro vita 51, di apprezzamento per l'acume e la facondia dei loro scritti 52, di ammirazione per il loro ingegno 53. Li chiama e li considera amici, e non desidera altro se non trovare irreprensibile la loro dottrina.

Parlare di accanimento nella lotta del vescovo d'Ippona contro il pelagianesimo, non ci pare appropriato. Certo, la vigile coscienza pastorale non gli permette di tacere, ma c'è tanta cristiana ed umana bontà nella sua azione, tanto umile e sincero amore per la verità che non possiamo non rallegrarci che la Chiesa abbia potuta schierare in difesa della fede un uomo simile 54.

Verso Pelagio, poi, che non conosceva se non di vista, avendolo incontrato una o due volte a Cartagine mentr'era occupato nella conferenza con i donatisti 55, ebbe sentimenti di grande benevolenza. Ricevutane una lettera familiare con espressioni di ammirazione e di lode, gli rispose brevemente, ma con grande bontà, senza entrare, per delicatezza, in merito alla questione controversa, di cui conosceva già i termini e misurava la gravità, avendo avuto sentore della lotta aperta che Pelagio conduceva contro la grazia 56. Occorrendogli di nominarlo, non omette di ricordare la fama di grande pietà di cui era circondato 57. Perfino dopo la condanna 58 riconosce di averlo amato, ed afferma di amarlo ancora, anche se, ormai, con altro affetto 59. Ne legge gli scritti con animo aperto, ansioso di trovarvi la dottrina cattolica, e quando s'imbatte in passi nei quali Pelagio sembra affermare la grazia in senso ortodosso, ha un sussulto di gioia 60.

Gioia sincera. Il vescovo d'Ippona era un gran polemista, ma non amava la polemica; non amava, soprattutto, la condanna degli avversari, ma la loro correzione 61. E poco si curava delle cose che fossero o ritenesse secondarie, purché l'essenziale fosse salvo, purché su di esso si fosse d'accordo. All'inizio della controversia, per esempio, non s'impegnò a fondo nel combattere la dottrina dell'impeccantia insegnata da Pelagio: la riteneva un errore, ma non un errore grave, non un errore pernicioso; e, per questo, non v'insisteva 62. Quel che gli premeva invece, e su cui insisteva, era la necessità assoluta della grazia per diventare giusti e per crescere nella giustizia 63.

Ben lungi dunque da S. Agostino l'atteggiamento e l'animo di chi maneggia troppo liberamente i testi degli avversari e fa dire loro con sottili procedimenti logici o accorgimenti dialettici quel che va oltre il pensiero e l'intenzione degli autori, dandoci un'immagine della loro dottrina che equivarrebbe a una "caricatura".

Ci si consenta di dire che non riusciamo a capire questi giudizi. Essi non rispondono ai fatti. Non rispondono all'animo buono e comprensivo del santo vescovo, portato per naturale inclinazione non alla lotta, ma alle gioie dell'amicizia e alla serena contemplazione del vero, e quindi ad interpretare in meglio, finché lo potesse fare senza scapito della fede, il pensiero degli altri 64. Non rispondono alla stima e al rispetto che dimostrò sempre, come abbiam visto, verso i pelagiani, almeno fino a quando questi non presero un atteggiamento di aperta ribellione alla Chiesa, usando contro i cattolici, come fece Giuliano, le armi della dialettica, della menzogna e dell'offesa 65. Non rispondono alla scrupolosa diligenza con la quale studiò ed espose, come vedremo, la dottrina di coloro cui era stato costretto ad opporsi.

La conoscenza che ebbe S. Agostino della dottrina pelagiana

Le fonti alle quali S. Agostino attinse le notizie sulla dottrina pelagiana son di due specie, orali e scritte. Pur rispettoso delle prime, si affidò sempre, quando dovette scrivere, alle seconde.

Le prime voci pare gli giungessero a caso mentr'era a Cartagine, colte dalla conversazione di alcuni passanti 66. Ne fu colpito, perché quelle voci dicevano che i bambini venivano battezzati non per la remissione dei peccati, bensì per essere santificati in Cristo; ma non diede loro gran peso. Poi le voci si fecero più frequenti e più serie: le persone che le riferivano erano degne di fede. Il nostro Santo se ne dolse, ma non volle intervenire per iscritto, prima di aver parlato con Pelagio o aver avuto in mano qualche suo scritto, ut si inciperem redarguere, negare non posset 67. Intanto tentò di arginare il male con discorsi e conversazioni 68. Ma non andò molto che dovette ricorrere agli scritti.

Il tribuno Marcellino gl'inviò da Cartagine tre affermazioni, tra le più gravi, della nuova dottrina, e lo pregò di rispondere. Due di esse erano state condannate poco tempo prima, nel sinodo di Cartagine, in base ad ut libello presentato da Paolino contro Celestio. S. Agostino non aveva preso parte a quel sinodo. Il Santo rispose. Aveva finito appena di scrivere il secondo libro, che ebbe l'opportunità di leggere il commento di Pelagio alle lettere di S. Paolo 69, dove questi presentava, in terza persona, le difficoltà contro la trasmissione del peccato originale, e rispose anche a queste difficoltà 70.

Dopo qualche anno, i giovani Timasio e Giacomo gl'inviarono, come abbiamo accennato, il De natura, opera scritta, come dicevano, da Pelagio. S. Agostino la lesse attentamente - non mediocri intentione perlego 71 - ne rilevò i lati positivi, ma ne scoperse anche, con dolore, i lati gravemente negativi, che confutò uno per uno. A un certo punto, a proposito di alcune parole di Pelagio in risposta alle difficoltà che gli muovevano gli avversari, S. Agostino esclama: Se non sapessimo ciò che segue, sentite solo queste parole, penseremmo di aver creduto cose false su di loro (i pelagiani), seguendo le voci che corrono e la testimonianza di alcuni fratelli...

Ma non dobbiamo sentire quel che segue? Certo che dobbiamo sentirlo, e dobbiamo correggerlo o evitarlo 72.

Dopo poco, due vescovi gl'inviarono alcune definitiones attribuite a Celestio, con preghiera di rispondere. Si trattava di 16 ragionamenti, corroborati, in fine, da molti testi scritturistici, con i quali s'intendeva stabilire la dottrina dell'impeccantia. S. Agostino ritiene che se non erano di Celestio, ne esprimevano la dottrina, che gli era nota da un'altra opera di lui 73. In ogni modo risponde, opponendo ragionamento a ragionamento e spiegando che l'uomo, qual è dopo il peccato, non può raggiungere in questo mondo la pienezza della perfezione. Lesse poi tutte le opere che Pelagio riconosceva per sue e alle quali in una lettera al Papa rimanda i suoi contraddittori: il De libero arbitrio, la lettera alla vergine Demetriade, la lettera al vescovo Paolino, la professione di fede. Unica eccezione, una breve lettera al vescovo Costanzo, che S. Agostino confessa di non aver letto 74. D'allora in poi argomentò contro Pelagio solo da queste opere, lasciando da parte quelle che il monaco bretone non riconosceva per sue o dichiarava che le erano state sottratte ancora imperfette 75. La cura che mette nel cogliere il pensiero dell'autore si può dedurre dalle seguenti parole che introducono una lunga citazione del De libero arbitrio: Ma perché qualcuno non dica forse che noi abbiamo capito male ciò che egli scrive o con animo malevolo lo abbiamo interpretato in un altro senso, diverso dall'intenzione dell'autore, ecco le sue stesse parole.76.

Nel 416 mandò al papa Innocenzo il De natura di Pelagio e il suo De natura et gratia, segnando in margine i luoghi più importanti perché potesse farsene un'idea e darne un giudizio 77.

Dopo la condanna del pelagianesimo del 418, cominciò un periodo nuovo di lotta, un periodo contrassegnato dal serrato duello tra Giuliano d'Eclano e il vescovo d'Ippona. Nonostante che i pelagiani usassero ormai maniere grossolane, S. Agostino non esitò a riportarne alla lettera gli scritti con tutte le accuse e con tutte le offese 78.

Istruttiva, a questo proposito, la sorte del De nuptiis et concupiscentia. S. Agostino scrisse l'opera originariamente in un solo libro, indirizzandolo al conte Valerio. Il libro arrivò nelle mani di Giuliano, che rispose con quattro libri. Un tale ne fece degli estratti, che mandò a Valerio, il quale li mandò a S. Agostino. Il santo rispose subito, aggiungendo al De nuptiis et concupiscentia un secondo libro 79. Intanto i quattro libri di Giuliano giunsero a S. Agostino. Nel leggerli, si accorse che gli estratti inviatigli dal conte Valerio non sempre erano conformi al testo originale: v'era stato introdotto qualche piccolo cambiamento. Si decise allora di rispondere al testo autentico, e oppose ai quattro libri di Giuliano sei dei suoi 80. Così il Contra Iulianum, che è l'opera più grande e più elaborata scritta da S. Agostino contro i pelagiani 81, nacque non solo dallo zelo apostolico, ma anche dall'onestà scientifica del Santo, onestà di cui ci offrirà una prova più eloquente, se così possiamo dire, verso la fine della vita. Il duello, infatti, non era ancora concluso. Avuto il secondo libro del De nuptiis et concupiscentia, Giuliano ne scrisse otto contro. Alipio, che ne ebbe conoscenza in una visita a Roma, li fece trascrivere e li inviò ad Ippona, pregando il suo grande amico di rispondere subito 82.

Il nostro Santo, benché avanti negli anni, si rimise al lavoro, riportò passo per passo il testo di Giuliano e oppose ad ognuno la dovuta risposta 83.

Lavoro veramente improbo da cui lo liberò la morte quand'era giunto alla fine del sesto libro. L'opera intera doveva comprendere otto libri: tanti, questa volta, quanti ne aveva scritti Giuliano. La decisione di riportare per esteso il testo dell'avversario, anche se lungo, anche se inutile, e qua e là grossolanamente offensivo - decisione del resto non nuova per S. Agostino che aveva seguito lo stesso metodo nella polemica sia manichea che donatista - voleva essere uno sforzo estremo di oggettività ed un invito ai molti spettatori della difficile lotta a leggere, a confrontare, a giudicare.

Il giudizio, anche per chi volesse limitarsi al solo metodo della polemica, non può essere che favorevole al vescovo d'Ippona.

Ma più che l'aspetto esterno della controversia a noi interessa il suo contenuto. Vediamo allora, sia pure in sintesi, quale sia la dottrina che S. Agostino difese contro i pelagiani.

Capisaldi della dottrina agostiniana contro il pelagianesimo

Quando S. Agostino volle riassumere le verità che la Chiesa difendeva contro i pelagiani, le ridusse a tre, e cioè: gratuità della grazia, imperfezione della nostra giustizia, peccato originale 84. Tre verità fondamentali, di cui ognuna apre un grande varco sull'orizzonte dell'insegnamento cristiano. Per darne un'idea meno sommaria, cominceremo dall'ultima, che è poi la prima, sia in ordine logico che in ordine cronologico. Il pelagianesimo turbò infatti la coscienza dei fedeli e richiamò la vigile attenzione dei vescovi anzitutto per la sua negazione del peccato originale.

Il vescovo d'Ippona comprese subito la gravità dell'errore intuendo il rapporto essenziale che lega insieme peccato originale e Redenzione: se combatté energicamente contro la negazione del primo termine, lo fece solo per difendere ed illustrare il secondo.

1) Il peccato originale, spiegò, non si trasmette per imitazione ma per propagazione 85. Altrimenti bisognerebbe dire che Gesù Cristo non ci ha redenti oggettivamente, ma solo in modo soggettivo dandoci esempi sublimi di virtù, come Adamo ci aveva dato il triste esempio del peccato; bisognerebbe dire che la giustizia con la quale diventiamo giusti davanti a Dio, non ci viene comunicata dall'interna azione dello Spirito Santo 86. S. Agostino fu dolorosamente sorpreso che una tale dottrina, così apertamente fondata nella Scrittura, nell'uso universale di battezzare i bambini in remissionem peccatorum, nell'insegnamento costante della Chiesa, diventasse di punto in bianco oggetto di controversia. L'argomento della tradizione, accennato nella prima opera antipelagiana 87, verrà svolto ampiamente nei primi due libri del Contra Iulianum 88.

2) A causa del peccato originale l'uomo ha subito un profondo cambiamento in peggio nei riguardi tanto dell'anima quanto del corpo 89: ha perduto la giustizia e la santità in cui era stato creato 90 ed è andato soggetto alla concupiscenza, all'ignoranza, alla morte; ha perduto, per usare una celebre espressione agostiniana, il posse non peccare e il posse non morì 91.

3) Di conseguenza l'uomo, ogni uomo, ha bisogno del medico che lo liberi dal peccato, ne restauri la natura e lo riporti alla primitiva dignità. Questo medico è uno solo, Cristo. Nessuno, senza la sua grazia, ha potuto mai o potrà mai diventare giusto davanti a Dio e riconquistare la perduta immortalità. Asserire il contrario è lo stesso che rendere vana la sua croce.

Fu questo il grido doloroso che uscì dall'animo del vescovo d'Ippona all'inizio della controversia e che il Santo ripeté fino alla morte, per quasi venti anni 92.

4) La grazia di Cristo, inoltre, ci è assolutamente necessaria per osservare la legge divina ed evitare il peccato.

Su questo punto S. Agostino apportò tutti i chiarimenti del caso per evitare confusione d'idee. Distinse anzitutto tra creazione e salvezza. Anche la creazione, con tutti i doni che la conseguono, tra cui in primo luogo la libertà, si può chiamare grazia; ma è un modo di parlare improprio 93. In senso proprio, cioè in senso cristiano, la grazia è il dono della salvezza.

Distinse accuratamente, poi, tra legge, dottrina o, in genere, rivelazione, che è una grazia esterna, e l'ispirazione dell'amore, che è una grazia interna, cioè una grazia che opera nel cuore e muove la volontà a compiere quanto la dottrina insegna e la legge prescrive. Ora la grazia di cui abbiamo bisogno, è questa e non quella soltanto 94.

Distinse, infine, tra la grazia della remissione dei peccati e l'aiuto divino - gli scolastici la chiameranno grazia attuale - che ci sostiene perché non cadiamo in nuovi peccati.

Dopo queste distinzioni, che erano necessarie per tagliar corto con le tergiversazioni pelagiane, il vescovo d'Ippona insiste nel precisare che il punto della controversia è soltanto quest'ultimo. Non basta dunque, incalza il Santo, non basta parlare di grazia riferendosi alla creazione o alla rivelazione o alla remissione dei peccati; bisogna ammettere, inoltre, la grazia che muove interiormente la volontà - la inspiratio dilectionis - e le rende possibile di evitare il peccato e di compiere il bene. Ammettano i pelagiani, conclude S. Agostino, ammettano questa grazia, e ogni controversia su questo punto sarà finita 95.

5) La necessità della grazia importa la necessità della preghiera per implorarla. La lotta del vescovo d'Ippona per la necessità della grazia era, in definitiva, una lotta per la necessità della preghiera. Che Dio non comandi nulla d'impossibile, S. Agostino l'insegnava non meno dei pelagiani; ma la conclusione che ne tirava era ben diversa dalla loro. Mentre i pelagiani si servivano di quel principio per negare la necessità della grazia, S. Agostino se ne serviva per difendere la necessità della preghiera 96.

6) La grazia divina non ci viene data secondo i nostri meriti; ma i nostri meriti, al contrario, si fondano sulla grazia 97. La fede, la giustificazione, la perseveranza finale, pur non escludendo la nostra cooperazione, sono doni di Dio, per cui la salvezza, come dice l'Apostolo, donum Dei est, non ex operibus, ut ne quis glorietur 98.

7) La nostra giustizia qui in terra, la giustizia, diciamo, dell'uomo adulto che si studia di osservare la legge divina, è sempre imperfetta. L'uomo può bensì con l'aiuto della grazia evitare i peccati gravi, ma non può evitare tutti i peccati. Anche i santi devono ripetere con sincerità, per se stessi, il dimitte nobis debita nostra 99.

Questa, per sommi capi, la dottrina che S. Agostino difese contro i pelagiani. Intorno ad essa, che ne costituisce il nucleo, si muove tutta la teologia della grazia, cioè quella moltitudine di argomenti, di tesi, di spiegazioni, di risposte che reggono l'edificio costruito con tanta sapienza ed amore dal vescovo d'Ippona.

Validità di questa dottrina secondo il magistero della Chiesa

Invece di entrare in questo grandioso edificio per considerarne i particolari, giova chiedersi se la Chiesa abbia o no riconosciuto che la dottrina di S. Agostino, nelle linee essenziali ricordate sopra, apparteneva al deposito della fede. La risposta non può essere che affermativa. Basta per convincersene leggere attentamente i decreti dei concili di Cartagine, di Orange, di Trento.

A Cartagine nel 418 veniva proclamato che se Adamo non avesse peccato, non sarebbe morto (can. 1); che il peccato originale si trasmette per generazione e dev'essere cancellato, anche nei bambini, per mezzo del battesimo (can. 2); che la grazia non consiste solo nella remissione dei peccati, ma anche nell'aiuto divino per non cadere nel peccato (can. 3); che questo aiuto è assolutamente necessario (can. 5); che esso non consiste solo nella conoscenza della legge, ma nell'amore e nella forza per fare ciò che la legge prescrive (can. 4); che tutti, anche i santi, qui in terra, devono riconoscersi peccatori e recitare con cuore contrito il dimitte nobis debita nostra (can. 6-8).

Ad Orange venne ribadita la dottrina sul peccato originale, che non è soltanto, insegna il concilio, una pena, ma un peccato; un peccato che importa la morte dell'anima (can. 2) e da cui proviene che l'uomo - anima e corpo - sia cambiato in peggio (can. 1) e il libero arbitrio sia viziato, cioè inclinato al male e indebolito o ferito nel suo vigore (can. 8 e conclusione). Il concilio poi si addentra nella dottrina della grazia, che non si identifica con la natura, altrimenti Cristo sarebbe morto invano (can. 21); ma consiste nell'infusione e nell'operazione o, come anche il concilio si esprime, nell'illuminazione e nell'ispirazione dello Spirito Santo, che previene e muove la nostra volontà (can. 4); che dà a tutti suavitatem in consentiendo et credendo veritati (can. 7); che opera in noi e per mezzo di noi il bene che noi stessi operiamo (can. 9). Dalla grazia proviene la fede, anzi l'inizio stesso della fede (can. 5), l'amore di Dio (can. 25), le nostre virtù (can. 6) e la perseveranza finale, un bene che dobbiamo implorare di continuo (can. 10).

Infine, i decreti del concilio di Trento sul peccato originale e sulla giustificazione, quantunque l'attenzione dei padri fosse rivolta non agli errori pelagiani ma alle esagerazioni antipelagiane, costituiscono un altro solenne riconoscimento della bontà della causa difesa con umiltà, ma con fermezza, dal vescovo d'Ippona. Il peccato originale, che si trasmette per generazione e non per imitazione; la morte e la concupiscenza, che il peccato ha introdotto nel genere umano; la necessità del battesimo, perché chi è nato ingiusto, nascendo da Adamo, diventi giusto rinascendo in Cristo; la grazia divina che tocca il cuore, ispira la volontà, stimola ed aiuta il peccatore perché si converta; la necessità della preghiera per ottenere la forza di osservare i divini comandamenti; l'imperfezione della nostra giustizia, la gratuità della vocazione alla fede e della giustificazione, il grande dono della perseveranza finale, la bontà divina che vuole siano meriti nostri quelli che sono doni suoi: ecco altrettanti temi della difesa agostiniana contro i pelagiani.

Anzi, la formulazione stessa della dottrina è fatta non di rado con parole che, se non sono proprio quelle di S. Agostino, ne costituiscono l'eco fedele. Ciò vale non solo del concilio di Cartagine e di quello di Orange, ma anche del concilio di Trento.

Con questo i termini del problema si spostano. Non si tratta più di un raffronto tra pelagianesimo e agostinismo; ma tra pelagianesimo e dottrina cattolica. Non più, dunque, un rapporto tra due correnti di teologia cristiana, di cui una accentuerebbe il contributo umano alla salvezza, l'altra il contributo divino, una accorderebbe di più alla grazia del Creatore, l'altra di più alla grazia del Redentore 100; ma un rapporto che altro non può essere se non quello che corre tra errore e verità, eresia e fede.

Affermare che i pelagiani ammettevano la grazia, senza spiegare in che senso l'ammettessero, è, non vogliamo dir molto, un equivoco. Aggiungere che i pelagiani negavano il concetto agostiniano di grazia, senza chiedersi se questo concetto corrisponda o no a quello insegnato dal magistero ecclesiastico, è restare nello stesso equivoco. Equivoci questi che gli scrittori cattolici, e molto più gli scrittori ecclesiastici, dovrebbero studiarsi, a nostro modesto parere, di evitare.

Quando poi si scrive che una pesante atmosfera dualistica o, in altre parole, che i resti del manicheismo gravano sulla dottrina agostiniana del peccato originale, perché il Santo insegna che il peccato di Adamo si trasmette con la natura stessa dell'uomo attraverso la generazione 101, non si avverte abbastanza che l'accusa va oltre S. Agostino e colpisce qualcosa di molto più grande di lui, colpisce la dottrina della Chiesa.

Chi dunque, come noi, prenda per criterio di giudizio la dottrina della Chiesa, non può aver dubbi sul fatto che il pelagianesimo, pur contenendo una parte di verità, verità del resto che la Chiesa aveva ed ha sempre insegnato, contiene gravi errori; e sono errori che toccano e sconvolgono i fondamenti stessi della fede.

Chi poi volesse giudicare la controversia sotto il solo profilo della ragione, veda e consideri se sia più vero, più umano, più religioso l'atteggiamento dei pelagiani o quello difeso da S. Agostino. Da una parte v'è l'uomo che s'affida alle sole forze della natura, che ritiene integra e sana, l'uomo che non implora l'aiuto divino per vincere il peccato perché pensa di non averne bisogno, che vede in Gesù Cristo non più di un modello da imitare, che per il conseguimento della salvezza confida nella propria giustizia e nei propri meriti. Dall'altra parte, invece, v'è l'uomo che sente la propria debolezza e la confessa, che implora umilmente la grazia per non soccombere al male, che aderisce a Cristo per conseguire in Lui la giustizia e l'immortalità che sa di aver perduto, che per quanti progressi abbia fatto nel bene si sente sempre peccatore e lontano dalla perfetta giustizia, che ringrazia Dio dei suoi doni e non si innalza sul fratello anche se caduto in gravi colpe, che impegna la propria buona volontà, ma attende la salvezza per i meriti di Gesù Cristo, dai quali riconosce che hanno origine e prendono consistenza i propri.

Pelagio e il pelagianesimo

A questo punto viene fatto domandarsi se non sia possibile esimere dal giudizio negativo che si deve portare sul pelagianesimo, il fondatore stesso del movimento, quello che gli ha dato il nome. Il De Plinval, che tanti utili studi ha dedicato alla figura e all'opera del monaco bretone, persegue insistentemente, se abbiamo ben capito, la tesi affermativa.

Non v'è dubbio che tra i tre corifei del movimento pelagiano - Pelagio, Celestio, Giuliano - le simpatie, almeno se si prescinda dall'episodio del sinodo palestinese, vanno verso il primo, il quale rappresenta più il momento espositivo che il momento polemico della controversia, e perciò è più sereno, più equilibrato degli altri, e non, come loro, drastico o tumultuoso. Ma quando se ne consideri la dottrina - diciamo la dottrina dommatica sul peccato originale e la grazia - la questione è un'altra. Differenze possono esserci, e ce ne saranno anche; ma secondarie. La sostanza della dottrina non è diversa. Volere o no, Pelagio fu e resta pelagiano.

Il De Plinval ammette, infatti, ch'egli insegnò la dottrina dell'impeccantia 102. Ora, a parte la nobile intenzione con cui venne presentata, questa dottrina è falsa ed è contraria all'insegnamento dei concili di Cartagine e di Trento 103. Scusare Pelagio, col dire che neppur S. Agostino s'impegnò a fondo su questo argomento 104, non ci pare efficace. Ciò può valere in lode di S. Agostino, il quale, scorgendo nel pelagianesimo errori più gravi, credette opportuno, in principio, non impegnarsi su questo; ma non può valere, ci pare, a favore di Pelagio, il quale in ogni caso ha sostenuto una dottrina che era in contrasto con la dottrina cattolica.

Ma v'è di più. Pelagio insegnò che Adamo nocque ai suoi posteri solo con l'esempio, in quanto il suo peccato non si trasmetterebbe ad essi con la trasmissione stessa della natura umana, ma solo per imitazione. È appena necessario ricordare che questa dottrina è stata più volte solennemente condannata dalla Chiesa. Che questa poi, e non altra, sia la dottrina di Pelagio pare che non si possa mettere in dubbio. Nel commento alle lettere di S. Paolo, a proposito del celebre passo della epistola ai Romani, 5, 12, propone diversi argomenti di ragione contro la nozione cattolica del peccato originale 105. Li propone, è vero, in terza persona, ma si sa che quegli argomenti rappresentano il suo pensiero: quae tamen postea iam haereticus pertinacissima animositate defendit, come scrive S. Agostino 106.

Difatti il S. Dottore ritrova la negazione del peccato originale nel De natura 107 e nel De libero arbitrio di Pelagio 108, tanto da concluderne che tra il maestro e il discepolo (Celestio) ci fosse differenza di audacia e di chiarezza, non differenza di sostanza 109. E non si vede chi possa dargli torto.

Il De Plinval sembra scivolare sull'argomento, dicendo che esso era, allora, una questione libera o per lo meno ancora indecisa 110. Questo motivo, se mai, potrebbe servire a spiegare l'errore di Pelagio, non già a dimostrare che non fu un errore. Del resto, anche a voler prescindere dall'argomento di tradizione addotto da S. Agostino, la reazione della Chiesa africana e poi della chiesa universale contro la nuova dottrina sta a dimostrare quanto essa fosse contraria al senso della fede.

Ma andiamo avanti. Pelagio insegnò che vi siano stati uomini sotto la legge mosaica, o anche fuori di essa, che sono diventati giusti avanti a Dio senza la mediazione di Gesù Cristo, negando così la necessità universale della redenzione per la salvezza del genere umano, negando, cioè, una tesi fondamentale della soteriologia cristiana. S. Agostino lo intuì subito e lo proclamò altamente 111.

Pelagio, inoltre, non riconoscendo l'uomo debole e ferito dalla colpa ereditaria, nega la necessità della grazia per evitare il peccato. Abbiamo visto come S. Agostino mettesse a fuoco il problema su questo punto, facendo le opportune distinzioni. Ma poiché queste distinzioni non furono comprese dai pelagiani ieri né dagli studiosi di Pelagio oggi - da alcuni almeno 112 - giova ripeterle. Quando parla di grazia necessaria per evitare il peccato, S. Agostino, spiegando la dottrina cattolica, intende un aiuto divino distinto dalla natura umana, distinto dalla rivelazione esterna, distinto dalla remissione dei peccati, cioè, in altre parole, intende un movimento interiore, un'ispirazione dell'amore che porti la volontà a volere il bene. Ora, conclude S. Agostino, Pelagio non solo tace su questa grazia, ma ne parla contro 113. Infatti nelle sue opere, quando tocca più da vicino l'argomento rispondendo alle accuse o, com'egli dice, alle calunnie degli avversari, egli mostra d'intendere per grazia o il libero arbitrio, di cui Dio ci ha naturalmente dotati 114, o la legge e la rivelazione, o la remissione dei peccati 115. Invano S. Agostino ha chiesto tante volte una risposta chiara alla questione 116; invano ha cercato negli scritti degli avversari una espressione che ricordasse il traxerit eum e il nisi fuerit ei datum a Patre meo del Vangelo 117. Hanc debet Pelagius gratiam confiteri, esclama, si vult non solum vocari, verum etiam esse Christianus 118. Ma non trovò nulla di più vicino alla verità cattolica che quelle parole del De libero arbitrio, dove Pelagio diceva che Dio somministra l'aiuto della sua grazia, Ut quod per liberum homines facere iubentur arbitrium, facilius possint implere per gratiam 119. Il facilius tradisce e scopre l'errore esplicitamente condannato dal concilio di Cartagine e più volte, implicitamente, altrove.

Non fa meraviglia, allora, che quando Albina, Piniano e Melania, dopo la Tractoria di Papa Zosimo (418), gli scrissero dalla Palestina informandolo di aver avuto da Pelagio, a cui avevano chiesto di condannare per iscritto le dottrine contestategli, l'assicurazione ch'egli ammetteva la necessità della grazia per le singole nostre azioni e anatematizzava chi insegnasse il contrario, non fa meraviglia, diciamo, che il vescovo d'Ippona, il quale conosceva bene le opere di lui, restasse diffidente sul significato di queste parole 120.

Coerentemente alla negata necessità della grazia, Pelagio nega la necessità della preghiera di domanda, l'implorazione del soccorso divino per evitare il peccato ed esercitare la virtù, implorazione che forma tanta parte della pietà e della pedagogia cristiana 121. Il De Plinval concede che in Pelagio manchi la preghiera d'implorazione.

Diremo dunque, concludendo, che la dottrina di Pelagio è lontana, molto lontana dall'ortodossia cattolica e dal genuino sentimento della pietà cristiana. E questo, a nostro parere, va detto senza equivoci, perché sia possibile, poi, valutare gli aspetti positivi, che non mancano, di quella dottrina. Altrimenti si corre il rischio di far passare per cristiana una dottrina che del cristianesimo ha perduto il profumo e l'anima. A conferma del nostro giudizio, perché non sembri troppo severo, rimandiamo il lettore a un giudizio ben più autorevole, al giudizio di papa Innocenzo sul De natura di Pelagio 122.

Distinzioni necessarie

Ma ecco che gli autori di cui ci occupiamo, e non soltanto loro, insistono, non sappiamo se a giustificazione o a contrapposto degli errori del pelagianesimo, insistono, diciamo, nelle esagerazioni, nelle oscurità, negli errori della dottrina agostiniana.

Qui, per rispondere, ci vorrebbe un lungo discorso. Non potendolo fare, ci limiteremo a ricordare alcune preziose distinzioni proposte da S. Agostino, ma non capite - o non volute capire - dai pelagiani, distinzioni che i moderni critici sembrano dimenticare. Eppure la chiarezza e la precisione della dottrina agostiniana dipendono proprio da quelle distinzioni.

Abbiamo ricordato sopra le distinzioni tra creazione e salvezza, rivelazione e grazia interiore, remissione dei peccati e aiuto divino o grazia attuale, indicandone la portata. Qui c'interessa metterne in rilievo alcune altre. Eccole in breve:

1° S. Agostino distinse la questione del peccato originale da quella dell'origine delle anime. Due questioni connesse, ma non identiche; delle quali, per di più, la prima era chiara; non così, per il vescovo d'Ippona, la seconda 123. Che ai fanciulli venga rimesso nel battesimo il peccato originale che hanno contratto nascendo, scrive il S. Dottore, verissimum, fundatissimum, notissimum est: la S. Scrittura e il costante insegnamento della Chiesa non permettono dubbi. Questa dunque è la regola, questa la verità da ritenersi fermamente. Chiunque, disputando vel de anima vel de quacumque re oscura neghi questa verità, aut corrigendus est aut cavendus 124.

Infatti non è lecito confondere questioni chiare con altre questioni che non lo sono; ma, se mai, si devono prendere le prime per chiarire le altre. Così il buon senso comanda di regolarsi e così si regolava S. Agostino. Infatti a S. Girolamo a proposito del creazionismo scriveva: "Se dunque la sentenza della creazione delle singole anime non si oppone a questa fede fondatissima (del peccato originale), sia anche mia; se vi si oppone, non sia neppure tua 125. I pelagiani invece si regolavano in modo contrario: insistevano su una questione oscura, qual era quella dell'origine delle anime, per negare una verità che non ammetteva discussioni, cioè l'esistenza del peccato originale 126; anzi accusavano i sostenitori del peccato originale di traducianismo, affibbiando loro il nomignolo di traduciani 127. S. Agostino non mancò di dimostrare la falsità e di scoprire l'insidia del loro metodo 128.

2° S Agostino distinse tra il fatto del peccato originale la sua intima natura osservando che il fatto è notissimo, la natura invece piena di mistero: quo nihil est ad praedicandum notius, nihil ad intelligendum secretius 129.

Sono parole scritte qui a Roma nel 388. Dopo 23 anni, sorta l'eresia pelagiana, la sua convinzione non è cambiata. Interroga la Scrittura e la Tradizione, e trova che la dottrina del peccato originale è certa, anzi fondamentale. Ma la ragione... la ragione ha molte difficoltà da opporre. Solo che queste difficoltà non possono e non debbono scuotere la nostra adesione alla fede.

Ai pelagiani che v'insistono, S. Agostino risponde dimostrando che quelle difficoltà non sono valide; ma alla sua esposizione premette queste sapienti parole: Ego autem et si refellere eorum argumenta non valeam, video tamen inhaerendum esse iisquae in S. Scriptura sunt apertissima.. 130. Dopo qualche anno, nel forte della controversia, a Giuliano che ribadiva l'impossibilità per la ragione di ammettere il peccato originale, il Santo ripete lo stesso principio con quest'altre parole: Sed etsi nulla ratione indagetur, nullo sermone explicetur, verum tamen est quod antiquitus veraci fide catholica praedicatur et creditur per Ecclesiam totam 131.

L'opposizione tra il razionalismo pelagiano e l'umile, sapiente adesione alla fede d'ogni vero cristiano non poteva essere espressa con maggiore efficacia.

Per illustrare la dottrina del peccato originale il vescovo d'Ippona usò tutti gli argomenti che una grande intelligenza può mettere in opera a servizio della fede; ma disse anche, con insistenza, che il punto focale della controversia non era in quelle spiegazioni, ma nell'accettazione pura e semplice della verità rivelata che la Chiesa insegnava. Non era in questione l'intellige ut credas, ma il crede ut intelligas.

3° Agostino distinse tra le verità che i pelagiani giustamente difendevano e le verità che arbitrariamente negavano: il loro errore consisteva appunto in questa negazione.

Ne abbiamo dato un saggio a proposito del De natura di Pelagio. Qui basterà ricordare un passo del Contra duas epistolas Pelagianorm.

Quando incalziamo i pelagiani con la testimonianza delle Scritture perché non neghino il peccato originale, non neghino la gratuità della grazia, non neghino che anche i santi hanno bisogno qui in terra della remissione dei peccati; quando incalziamo i pelagiani su questi argomenti, scrive in sostanza il vescovo d'Ippona, essi ci scappano fuori con le nebbie delle loro questioni. Queste nebbie sono le lodi, che proclamano altamente, della natura, delle nozze, della legge, del libero arbitrio, dei santi; quasi che qualcuno di noi abbia mai vituperato queste cose o non le abbia piuttosto esaltate, secondo il merito, ad onore del Creatore e del Salvatore.

Dopo questa premessa il nostro Dottore dimostra, con la visione globale della verità che gli è propria, che l'aspetto falso del pelagianesimo è nell'unilateralità delle tesi sostenute: lodavano infatti la natura umana, ma negavano che avesse bisogno del medico; lodavano le nozze, ma negavano il male della concupiscenza; lodavano il libero arbitrio, ma negavano la necessità della grazia; e così via. Bisogna invece, per essere nel vero, unum facere et alterum non omittere 132. Evidentemente S. Agostino, per ragioni polemiche, dovrà insistere di più nel dimostrare la falsità di queste negazioni che nel provare la verità di quelle affermazioni. Per quelle gli basterà ricordare, come fece, che si trattava d'un patrimonio comune da nessuno contestato. Aspettarsi che il vescovo d'Ippona accentui le tesi care ai pelagiani, tesi che nessuno metteva in dubbio, significa dimenticare la natura della controversia e le esigenze della polemica.

4° S. Agostino distinse tra la remissione dei peccati nel battesimo, che è piena e perfetta 133, e la giustificazione, che deve, quaggiù, perfezionarsi di continuo, ma che non può mai diventare perfetta, a causa dei peccati, almeno lievi, nei quali cadono anche i santi; che, anzi, non sarà perfetta se non dopo la resurrezione, quando la grazia avrà riparato totalmente ciò che il peccato ha distrutto. I testi agostiniani abbondano in proposito. Ne ricorderemo uno solo. Chi di noi - esclama il S. Dottore - nega che nel battesimo si rimettano i peccati di tutti e che tutti i fedeli risalgano dal lavacro della rigenerazione senza macchia, né ruga?... Ma tra questo lavacro, dove vengono tolte tutte le macchie e le rughe passate, e il regno, dove la Chiesa vive in perpetuo senza macchia né ruga, c'è di mezzo il tempo, che è tempo di preghiera, quando ognuno deve dire: rimetti a noi i nostri debiti 134.

5° S. Agostino distinse, a proposito di concupiscenza, tra male e peccato. Difese tenacemente contro Giuliano che la concupiscenza, qualis nunc est, è un male, e non già un male che si debba sopportare con pazienza come il dolore o la morte; ma un male che ci spinge al peccato e che noi, per non peccare, dobbiamo mortificare e combattere. Ma con la stessa tenacia difese che la concupiscenza, dopo il battesimo, non è peccato; non lo è perché ogni peccato è stato rimesso, e la concupiscenza, che resta, viene chiamata peccato solo in senso metaforico, in quanto cioè proviene dal peccato e tende ad esso 135. Anche qui il concilio di Trento ha esposto la dottrina cattolica quasi letteralmente con le parole di S. Agostino 136. I pelagiani non capirono o non vollero capire né questa né la precedente distinzione, accusando il loro temibile avversario di negare che il battesimo rimettesse i peccati. S. Agostino respinse più volte, con estrema energia, quest'accusa, dimostrandone tutta la falsità 137. Ma alcuni moderni, senza darsene per intesi, continuano a ripeterla.

6° S. Agostino distinse tra il libero arbitrio e la libertà (dal male), asserendo che col peccato non è perito il libero arbitrio nell'uomo, ma è perita la libertà (dal male), quella libertà che aveva Adamo e che non ci viene restituita se non da Gesù Cristo 138. La difesa della grazia fu un'appassionata difesa di questa libertà cristiana.

7° S. Agostino distinse tra la difesa simultanea del libero arbitrio e della grazia, e il modo di spiegare la coesistenza dell'uno e dell'altra. Sulla prima questione fu sicuro, forte, perentorio; trovava infatti e l'una e l'altra verità nella Scrittura e nell'insegnamento della Chiesa 139. Invece nella seconda questione fu molto cauto. Parlò dell'onnipotente azione di Dio sul cuore degli uomini, parlò della liberale soavità dell'amore che la grazia c'ispira, gettando così fasci di luce su un arduo problema; ma sentì sempre la difficoltà 140 e s'arrestò alle soglie del mistero 141, invitando gli altri, specialmente i meno preparati, a fare altrettanto 142.

Si potrebbe continuare, ma ci pare che basti. Anche sul delicatissimo tema della predestinazione S. Agostino difese con forza i dati della rivelazione; ma per il resto rimandò i suoi lettori alla profondità e alla fecondità del mistero.

I dati della rivelazione per S. Agostino sono: l'universalità della redenzione, che non può non includere l'universalità della volontà salvifica, e la misericordiosa predilezione di Dio verso gli eletti, predilezione che non abbraccia tutti gli uomini, perché l'esistenza eterna delle due città c'impedisce di credere che tutti si salvino. In ogni modo, conclude frequentemente il Santo, se è vero che la bontà divina può salvare senza meriti, è altrettanto vero che la divina giustizia non può condannare senza demeriti: come la grazia non può essere ingiusta, così la giustizia non può essere crudele 143.

Se le distinzioni indicate, ed altre che omettiamo per brevità, fossero tenute nel dovuto conto, la controversia pelagiana, che non è una disputa di scuola ma una questione di fede, apparirebbe, con grande profitto della teologia e della storia, in una luce più vera, e si eviterebbe il grave torto di cercare gli eredi di S. Agostino fuori della Chiesa cattolica o di far carico al Dottore della grazia di non aver dissipato oscurità che la teologia, dopo tanti secoli, ha lasciato pressoché intatte, perché sono oscurità che nascono dalla trascendenza del divino, di fronte al quale la mente umana, quando non la soccorra un profondo senso del mistero, resterà sempre insoddisfatta ed inquieta.

Abbiamo scritto queste pagine col solo intento di rendere un modesto servizio alla verità in una questione che ci è parsa importante. Ma ben sapendo che non basta sempre essere persuasi d'aver ragione a giustificare una critica, e soprattutto a nobilitarla, vorremmo concluderle esprimendo la speranza d'aver osservato i più scrupolosi riguardi verso gli autori che abbiamo preso a confutare. In caso contrario, ciò sarà avvenuto certamente contro la nostra intenzione; e rifiutiamo anticipatamente ogni interpretazione meno gentile d'ogni nostra parola.