PADRE TRAPÈ SI CONFIDA (Ragazzo scelto)
  (a cura di padre Carlo Cremona)

 

Il padre Trapè non era alieno dal discorrere dei suoi, confidenzialmente.

Amava molto la sua famiglia; venerazione, tenerezza verso la mamma: santa donna, un po’ come Monica per il suo Agostino.

Molta stima per il padre, Federico, un contadino, un antico piceno: persona assai saggia; la mamma, Maria Fortunati, vera madre, il cui valore: affetto misto a fede in Dio, autentica fede cristiana, da trasmettere ai figli, come nutrimento; padre Trapè diede affetto e lustro alla sua famiglia, sorelle (qualcuna da me confidenzialmente conosciuta), fratelli, parenti stretti; maestri e compagni; esperienze di ragazzo; oggetto di un certo distacco, quando, bambino, era entrato nel seminario agostiniano.

Qui, per lui, era cominciata una nuova vita, qualcosa di nuovo, di sorprendente, di grande.

Ciò proveniva dal suo carattere: apprezzamento dell’amicizia maggiore del vincolo parentale, quella nuova fraternità che la vita monastica crea... La vocazione di Abramo: egredere de terra tua et de cognatione tua.

Accentuata l’umanità più che la vena degli affetti naturali; che, né il prestigio della sua autorità né la fama dei suoi studi aveva rallentato o inquinato; sempre una sorta di nostalgia egli avvertiva nei confronti delle sue radici.

Era anche umiltà e gratitudine verso coloro, i primi, che lo avevano aiutato a collocarsi e camminare su una via così dignitosa e fattiva di bene.

Nei suoi ricordi personali autografi, P. Trapè ha lasciato solo qualche traccia dell’ambiente nativo e dei suoi familiari, soprattutto di coloro che più hanno influito sulla sua vocazione.

All’ambiente e alle persone conserva la sua viva gratitudine; viva, se indotto ad esternarla palesemente con discrezione; assai più viva, è da credere, nell’intimità del suo cuore.

Anche io mi attengo a qualche accenno, non essendo questo il mio compito.

Quasi ad indicare le radici dalle quali si sviluppò quella personalità di uomo, di cristiano, di religioso, di sacerdote zelante e studioso, di superiore di ordine religioso, la personalità che ha lasciato un’indubbia eredità dopo la vita terrena e interessa chi sfoglia, ora, queste pagine, mi appello ai ricordi che il padre Trapè raccolse in un fascicolo intitolato: Prima che non sia troppo tardi...

 

Scrive:

Sono stato formato cristianamente da mia madre e da mia nonna. Mio padre c’entrò poco nella formazione cristiana, molto in quella umana. M’insegnò la fortezza del carattere, la coerenza della vita, l’amore al lavoro.

Ricordo alcuni episodi. Lo ringrazio per avermi lasciato libero di seguire la mia vocazione. Forse egli avrebbe preferito che avessi studiato fino al terzo ginnasio. All’inizio a lui interessava ch’io studiassi perché, come diceva, non voleva che i suoi figli tribolassero.

 

Forse, nella sua modestia, padre Trapè non se ne è mai accorto; ma gli accadde quello che capitò al suo grande omonimo, l’altro Agostino:grande influenza spirituale daparte della madre Monica, nessuna da parte del padre, Patrizio; che tuttavia Agostino loda, per l’interesse dimostrato verso l’ingegno del figlio, e anche con suo sacrificio.

Anche padre Trapè si dice grato al padre per averlo lasciato libero di seguire la sua vocazione religiosa.

Come i buoni papà di allora, che avevano dovuto affrontare dure esperienze di lavoro per migliorare alquanto le condizioni di famiglia, voleva che il figlio raggiungesse un grado anche modesto di istruzione, perché non tribolasse come aveva tribolato lui in gioventù. Papà Federico, infatti, aveva emigrato in Argentina ed era stato venditore di cappelli nella zona del viterbese.

Nel descrivere i ricordi dei luoghi nativi, la penna del padre Trapè assurge ad un valore letterario, di stile quasi manzoniano, pieno di nostalgie:

Non so come descrivere la zona dove sono nato, in quel lembo d’Italia, che ricco di alti monti, di fiumi noti alla geografia e alla storia, di valli ubertose e di dolci colli, tra i fiumi Foglia e Tronto, va degradando dagli Appennini al fiero mare Adriatico, quel lembo che gli storici hanno chiamato e anche noi chiamiamo Marche.

La zona di cui intendo parlare si stende alla confluenza di tre paesi, tra il fermano e il maceratese, è fertile di cereali, di vigneti, di frutta, di ulivi; ma povera di comodità e di acque.

Invano cercheresti una vasta estensione di terreno in pianura, ma tutto, tra brevi tratti pianeggianti e piccoli promontori, è discesa. Una discesa coronata alle spalle da un anfiteatro di colli che ne chiudono da quella parte l’orizzonte sul quale si scorgono, come vigili sentinelle, i campanili dei paesi che su quei colli si adagiano; davanti invece su tre lati ha fossati o torrenti o dirupi da dove il terreno risale a formare altri colli e altri promontori.

Eppure non è una valle.

Composta di un’ampia superficie ondulata, alterna forti depressioni o anche veri precipizi o burroni a piccole alture da cui però, spingendo lo sguardo verso Oriente, si può scorgere la varia distesa dei colli che scendono fino all’Adriatico. Eppure non ha un punto, un colle per esempio, che dia al tutto unità di prospettiva e ne costituisca il centro geografico.

Forse quella che meglio ne rappresenta all’occhio l’unità e dà rilievo alla configurazione generale è, con la sua striscia bianca e serpeggiante, la strada.

Nasce da un piccolo promontorio vicino a una chiesa che era dedicata ai santi Pietro e Paolo e si precipita in una discesa ripida, dritta, lunga; poi una breve pianura, poi un’altra discesa, poi, quasi stanca, va serpeggiando su un terreno che spesso è a mezza costa, spesso sul crinale di due versanti opposti che scendono verso precipizi o angusti torrenti. All’inizio, dove comincia il suo corso, c’è, vicino la chiesa, la casa dove visse fanciulla mia madre e annessa alla casa una piccola aula per le prime tre classi della scuola elementare, le cui scale alla fine delle lezioni scendevo in fretta per salire quelle della casa e chiedere alla nonna di aiutarmi a placare la gran fame che avevo in corpo, ché, se la scuola era terminata, restava un tratto non breve di strada da percorrere. Avuto il soccorso, giù di corsa a raggiungere il gruppo dei miei compagni, in mezzo ai quali, camminando, sgranocchiavo lieto, tra l’invidia di tutti, la bella fetta di pane che la nonna mi aveva dato. La strada, arrivata a fianco della mia casa, continuava ancora un poco, s’arrestava davanti a un’altra chiesa, dedicata a Maria Regina delle misericordie, e cedeva il passo a un’altra strada, non biancheggiante ma di terra battuta che scendeva a precipizio per raggiungere il torrente – pomposamente il fiume – Lete, dove due tronchi d’albero gettati tra una e l’altra sponda ne rendevano più sensibile l’angustia e più breve il passaggio sull’altro versante: su quei tronchi mia madre, che percorreva quasi ogni domenica quella strada, una volta scivolò, cadde e si ruppe un braccio, che poi per molti anni, finché visse, le procurò dolori e fastidi.

Eppure quella zona, non comoda, non bella, illustre meno ancora, fino al grande esodo di qualche decennio fa era popolata da tante case coloniche, abitata da tanti piccoli proprietari o contadini, da tanta gente insomma che traeva dal lavoro agricolo sostentamento e benessere. Anzi quasi consapevole del suo segregamento da altre zone, era particolarmente unita e vivace: la gioia del lavoro e del viver cristiano non l’abbandonava mai. E cantava, cantava. Cantavano a « batocco » i mietitori o i falciatori per sostenere il non lieve lavoro. Si udivano risuonare gli allegri stornelli, non raramente punzecchianti, cui al momento opportuno non mancava mai la risposta. Al termine d’una giornata di fatica un’altra fatica ancora, come per la raccolta del granoturco la scartocciatura, finita la quale due salti nell’aia – si ballava appunto il saltarello – al suono acuto e rumoroso dell’« organetto » o fisarmonica. C’erano anche lungo la strada due contrade nelle quali la contiguità o vicinanza delle case e la mobile vivacità dei bambini rendevano tutto più vivo, più familiare, più amichevole.

Ora tutto tace, tutto. Le case coloniche restano ancora là, grandi, comode, non raramente anche belle, ma vuote; restano a muta testimonianza che in tempi non lontani c’era stata la vita, tanta vita. Solo il silenzio regna sovrano. Non si odon più i buoi muggir nelle stalle, le galline cantare sull’aia, la tacchina singhiozzare nei prati, il gregge belare nei campi. La vita che questi animali domestici diffondevano tutt’intorno è ormai morta. Questa impressione di morte diventa più cupa, più sconfortante, più presaga in quei due agglomerati di case, svuotatesi quasi d’incanto e ormai fatiscenti.

Non andrà molto che a questo silenzio ne seguirà un altro più profondo, più grave, più irreparabile, quello psicologico della memoria. Per salvare, in parte almeno, questo sono nate le pagine di questo libretto. Purché non sia troppo tardi.

 

E i ricordi incalzano:

 

Dopo quanto si è detto, nessuno pensa di trovare qualcosa d’interessante in tutta la zona.

Una eccezione però bisogna farla a favore della pietà cristiana: la Chiesa dedicata alla Madonna che resta…

La vollero i nostri padri nel ’700, come segno della loro fede, memoriale della loro speranza, luogo del loro rifugio, la vollero e la edificarono, su un piccolo promontorio, in mezzo a un boschetto, sola; dietro una breve valle e l’ampia cerchia di castelli, quasi un anfiteatro naturale a custodia e a difesa; davanti l’immensa distesa dei dolci colli degradanti verso l’Adriatico; tutt’intorno le ubertose campagne e il limpido azzurro del cielo.

Nel suo trono, Maria.

Ma non fu solo la pietà cristiana a suggerirne la costruzione, bensì anche un motivo di concordia e di fraternità civile.

È costruita infatti alla confluenza di tre paesi, i cui confini s’incontravano e s’arrestavano ai piedi della Madre delle misericordie. Chi ricorda i rancori facili e frequenti del tempo – solo di quel tempo? –, comprende la ragione di questo significato particolare.

Era la pietà mariana che suggeriva le vie della pace.

Evviva Maria.

Quella nenia mariana la sento ancora nel cuore come un atto di fede, di devozione, d’amore; e ripenso ai sentimenti che suscitava in quanti la sentivano dalle loro case o dalla strada.

Forse è nato da qui il mio saluto abituale verso chi incontro col festoso: Evviva!

Qualcuno non comprende, come quel tale che mi rispose: Evviva che cosa?

Replicai: Quel che vuoi tu.

E lui ammutolì.

 

Altro bel ricordo, forse, non solo ricordo, ma autentica grazia per meritare altre grazie dal buon Dio, la presenza in famiglia della sorella della mamma, la zia Lisa, che si consacrò suora di clausura presso le clarisse assumendo il nome di Sr. Antonietta.

Alla pia morte della zia, padre Trapè fu presente con la celebrazione del Santo Sacrificio, pronunciando l’omelia piena di riferimenti personali.

 

Suore venerate, cari parenti ed amici,

di fronte al doloroso spettacolo della morte, quando il corpo di persone che abbiamo amato ed amiamo giace immobile e muto davanti a noi in attesa di tornare alla terra, non sono solito parlare, non me ne basta l’animo: un fiotto di commozione mi serra la gola e mi toglie la parola.

Preferisco rendere l’estremo omaggio col silenzio, la riflessione, la preghiera.

Se questa volta parlo – o tento di parlare – lo faccio per pagare un debito di gratitudine alla zia.

Fu lei che mi portò in braccio da bambino, e tante volte avrà tentato di placare la mia irrequietezza con le carezze o con metodi più persuasivi. Allora questi metodi andavano e la zia non me li avrà risparmiati.

Cresciuto andai a scuola, che era adiacente alla casa dove lei abitava. Uscendo dalla scuola salivo in fretta le scale di quella casa e chiedevo soccorso alla fame che dopo tante ore era arrivata. La zia o la nonna non mi facevano attendere: aprivano la madia, tagliavano un bel pezzo di pane, vi aggiungevano qualche volta del companatico e mi lasciavano andare con un sorriso. Io correvo a raggiungere i compagni per fare con loro la lunga discesa che mi portava a casa mia, fiero di essere per loro oggetto d’invidia.

Un giorno all’improvviso corse la voce che la zia Lisa sarebbe entrata nel monastero delle clarisse qui a Montegiorgio.

Non ricordo i giudizi che furono dati: ero troppo piccolo per capirli o solo per interessarmene.

Ricordo però la festa che le fecero le future consorelle quando lei con passo deciso e gioioso varcò la soglia delle clarisse, lasciando al di fuori i parenti sconcertati e increduli.

Rivedo ancora gli abbracci festosi e risento il correre frettoloso per i corridoi del monastero dove l’accompagnarono, tornando poi alla porta d’ingresso, ma dall’altra parte. Non capivo molto di ciò che stava succedendo, ma quel ridere, quell’abbracciarsi, quel correre rumoroso per il monastero, quella gioia luminosa sul volto della zia, quel bacio, l’ultimo, che mi diede prima di partire mi restarono impressi nella memoria e nel cuore.

Dopo qualche anno presi anch’io la via del convento entrando in seminario. Da quel momento la zia che aveva pregato per la mia vocazione e vi aveva sperato anche quando alle sue ingenue domande io rispondevo con l’aria sbarazzina del ragazzo che pensa a tutt’altro, da quel momento intensificò la sua preghiera affinché la mia incipiente vocazione non venisse meno. Alle preghiere aggiunse i sacrifici, che dovettero essere molti e continui. Lo rilevai da una parola che mi disse il giorno della mia prima messa, quarant’anni fa ormai. L’ho impressa indelebilmente nell’animo e al risentirla interiormente mi commuove ancora.

È una di quelle parole che non si dovrebbero ripetere quaggiù perché rivelano l’aspetto più intimo e più profondo d’una vita che sarà manifesta, totalmente, solo nell’ultimo giorno. La zia, se fosse viva, non mi perdonerebbe che io la ripeta, ma ora è lì immobile nel sonno della morte: l’orecchio del corpo non può sentire, né le labbra protestare. La ripeto per le monache perché conoscano un aspetto inedito della vita interiore della loro consorella defunta, per i sacerdoti perché ricordino che la loro vocazione è legata, spesso, alla preghiera dei buoni, per i parenti e tutti i presenti perché vedano nei monasteri di clausura una funzione essenziale e insostituibile nella vita della Chiesa.

Mi disse dunque chiamandomi col nome del battesimo: « Dante, quanto mi sei costato! ».

Poi cambiò subito discorso, quasi vergognandosi di quelle parole che aveva pronunciate timidamente, a fior di labbra, volendo quasi sopprimerle mentre le metteva fuori.

Grazie, zia! Allora capii perché la mia vocazione era sbocciata e maturata, perché aveva resistito a tante tempeste, perché dopo quarant’anni di sacerdozio è ancora viva, fresca, operante, gioiosa.

Grazie! Se te lo abbia detto in quell’occasione non so – le tue parole mi colpirono come una folgore e mi sconvolsero –, ma te l’ho detto tante volte, dopo, all’altare del Signore, te lo ripeterò, lo spero, nel cielo insieme a tutti coloro, e sono tanti, che pregando e sperando hanno contribuito al fiorire e al maturarsi della mia vocazione religiosa e sacerdotale.

Dopo quel giorno, non so più quanto tempo dopo, la zia volle che facessi un patto, che fu questo: lei s’impegnava a pregare ogni giorno per me e ad offrire i suoi sacrifici, io dovevo celebrare la s. Messa per lei ogni anno l’otto maggio. Mi disse che l’otto maggio era un grande giorno per lei: un giorno in cui aveva ricevuto dal Signore una grazia molto segnalata. Non mi disse quale, né io le domandai altro. Accettai la proposta e, salvo dimenticanze, vi restai fedele.

Qui debbo terminare questi ricordi da me sconosciuti perché troppo intimi.

Ma questi ricordi, congiunti a quelli che io ho di lui, mi dicono più ricchezza del cuor ch’egli ebbe.

Molto del cuore resta sempre celato.

Solo Gesù sa cosa c’è nell’uomo!

Il papà Agostino Trapè

La mamma
Maria Fortunati
in Trapè(1892-1977)

   

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