La Frazione di Tasci

 

Perché non sia troppo tardi:

 

Non so come descrivere la zona dove sono nato, in quel lembo d’Italia, che ricco di alti monti, di fiumi noti alla geografia e alla storia, di valli ubertose e di dolci colli, tra i fiumi Foglia e Tronto, va degradando dagli Appennini al fiero mare Adriatico, quel lembo che gli storici hanno chiamato e anche noi chiamiamo Marche.

La zona di cui intendo parlare si stende alla confluenza di tre paesi, tra il fermano e il maceratese, è fertile di cereali, di vigneti, di frutta, di ulivi; ma povera di comodità e di acque.

Invano cercheresti una vasta estensione di terreno in pianura, ma tutto, tra brevi tratti pianeggianti e piccoli promontori, è discesa. Una discesa coronata alle spalle da un anfiteatro di colli che ne chiudono da quella parte l’orizzonte sul quale si scorgono, come vigili sentinelle, i campanili dei paesi che su quei colli si adagiano; davanti invece su tre lati ha fossati o torrenti o dirupi da dove il terreno risale a formare altri colli e altri promontori.

Eppure non è una valle.

Composta di un’ampia superficie ondulata, alterna forti depressioni o anche veri precipizi o burroni a piccole alture da cui però, spingendo lo sguardo verso Oriente, si può scorgere la varia distesa dei colli che scendono fino all’Adriatico. Eppure non ha un punto, un colle per esempio, che dia al tutto unità di prospettiva e ne costituisca il centro geografico.

Forse quella che meglio ne rappresenta all’occhio l’unità e dà rilievo alla configurazione generale è, con la sua striscia bianca e serpeggiante, la strada.

Nasce da un piccolo promontorio vicino a una chiesa che era dedicata ai santi Pietro e Paolo e si precipita in una discesa ripida, dritta, lunga; poi una breve pianura, poi un’altra discesa, poi, quasi stanca, va serpeggiando su un terreno che spesso è a mezza costa, spesso sul crinale di due versanti opposti che scendono verso precipizi o angusti torrenti. All’inizio, dove comincia il suo corso, c’è, vicino la chiesa, la casa dove visse fanciulla mia madre e annessa alla casa una piccola aula per le prime tre classi della scuola elementare, le cui scale alla fine delle lezioni scendevo in fretta per salire quelle della casa e chiedere alla nonna di aiutarmi a placare la gran fame che avevo in corpo, ché, se la scuola era terminata, restava un tratto non breve di strada da percorrere. Avuto il soccorso, giù di corsa a raggiungere il gruppo dei miei compagni, in mezzo ai quali, camminando, sgranocchiavo lieto, tra l’invidia di tutti, la bella fetta di pane che la nonna mi aveva dato. La strada, arrivata a fianco della mia casa, continuava ancora un poco, s’arrestava davanti a un’altra chiesa, dedicata a Maria Regina delle misericordie, e cedeva il passo a un’altra strada, non biancheggiante ma di terra battuta che scendeva a precipizio per raggiungere il torrente – pomposamente il fiume – Lete, dove due tronchi d’albero gettati tra una e l’altra sponda ne rendevano più sensibile l’angustia e più breve il passaggio sull’altro versante: su quei tronchi mia madre, che percorreva quasi ogni domenica quella strada, una volta scivolò, cadde e si ruppe un braccio, che poi per molti anni, finché visse, le procurò dolori e fastidi.

Eppure quella zona, non comoda, non bella, illustre meno ancora, fino al grande esodo di qualche decennio fa era popolata da tante case coloniche, abitata da tanti piccoli proprietari o contadini, da tanta gente insomma che traeva dal lavoro agricolo sostentamento e benessere. Anzi quasi consapevole del suo segregamento da altre zone, era particolarmente unita e vivace: la gioia del lavoro e del viver cristiano non l’abbandonava mai. E cantava, cantava. Cantavano a « batocco » i mietitori o i falciatori per sostenere il non lieve lavoro. Si udivano risuonare gli allegri stornelli, non raramente punzecchianti, cui al momento opportuno non mancava mai la risposta. Al termine d’una giornata di fatica un’altra fatica ancora, come per la raccolta del granoturco la scartocciatura, finita la quale due salti nell’aia – si ballava appunto il saltarello – al suono acuto e rumoroso dell’« organetto » o fisarmonica. C’erano anche lungo la strada due contrade nelle quali la contiguità o vicinanza delle case e la mobile vivacità dei bambini rendevano tutto più vivo, più familiare, più amichevole.

Ora tutto tace, tutto. Le case coloniche restano ancora là, grandi, comode, non raramente anche belle, ma vuote; restano a muta testimonianza che in tempi non lontani c’era stata la vita, tanta vita. Solo il silenzio regna sovrano. Non si odon più i buoi muggir nelle stalle, le galline cantare sull’aia, la tacchina singhiozzare nei prati, il gregge belare nei campi. La vita che questi animali domestici diffondevano tutt’intorno è ormai morta. Questa impressione di morte diventa più cupa, più sconfortante, più presaga in quei due agglomerati di case, svuotatesi quasi d’incanto e ormai fatiscenti.

Non andrà molto che a questo silenzio ne seguirà un altro più profondo, più grave, più irreparabile, quello psicologico della memoria. Per salvare, in parte almeno, questo sono nate le pagine di questo libretto. Purché non sia troppo tardi.

 

 

E i ricordi incalzano:

 

Dopo quanto si è detto, nessuno pensa di trovare qualcosa d’interessante in tutta la zona.

Una eccezione però bisogna farla a favore della pietà cristiana: la Chiesa dedicata alla Madonna che resta…

La vollero i nostri padri nel ’700, come segno della loro fede, memoriale della loro speranza, luogo del loro rifugio, la vollero e la edificarono, su un piccolo promontorio, in mezzo a un boschetto, sola; dietro una breve valle e l’ampia cerchia di castelli, quasi un anfiteatro naturale a custodia e a difesa; davanti l’immensa distesa dei dolci colli degradanti verso l’Adriatico; tutt’intorno le ubertose campagne e il limpido azzurro del cielo.

Nel suo trono, Maria.

Ma non fu solo la pietà cristiana a suggerirne la costruzione, bensì anche un motivo di concordia e di fraternità civile.

È costruita infatti alla confluenza di tre paesi, i cui confini s’incontravano e s’arrestavano ai piedi della Madre delle misericordie. Chi ricorda i rancori facili e frequenti del tempo – solo di quel tempo? –, comprende la ragione di questo significato particolare.

Era la pietà mariana che suggeriva le vie della pace.

Evviva Maria.

Quella nenia mariana la sento ancora nel cuore come un atto di fede, di devozione, d’amore; e ripenso ai sentimenti che suscitava in quanti la sentivano dalle loro case o dalla strada.

Forse è nato da qui il mio saluto abituale verso chi incontro col festoso: Evviva!

Qualcuno non comprende, come quel tale che mi rispose: Evviva che cosa?

Replicai: Quel che vuoi tu.

E lui ammutolì.

 

 

Ricordi:

 

Sono stato formato cristianamente da mia madre e da mia nonna. Mio padre c’entrò poco nella formazione cristiana, molto in quella umana. M’insegnò la fortezza del carattere, la coerenza della vita, l’amore al lavoro.
Ricordo alcuni episodi. Lo ringrazio per avermi lasciato libero di seguire la mia vocazione. Forse egli avrebbe preferito che avessi studiato fino al terzo ginnasio. All’inizio a lui interessava ch’io studiassi perché, come diceva, non voleva che i suoi figli “tribolassero” come aveva tribolato lui in gioventù, in Italia e in Argentina. Negli anni ancor giovanissimo aveva fatto nel viterbese il venditore dei cappelli. Non era proprio a un passo da Montegiorgio.

 

 

Maggio 1987

La mia prima messa:

 

Festa di tutta una zona per questa circostanza, quasi a presagire che quello era il punto zenit della storia di tutta la zona. A memoria d’uomo non si ricordava un’altra ordinazione sacerdotale. In questi giorni si potrebbe ricordare il cinquantesimo di quel giorno, ma tutto è silenzio ormai, tutto è fatiscente o sulla via di diventarlo.

   

top^